NELLA CHIESA ANTICA
7 aprile 2024, II DI PASQUA B
(At 4,32-35; Sl 118/117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31)

 

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo,
non era con loro quando venne Gesù (Gv 20,24)

 

Nella chiesa antica, dopo il lungo periodo di preparazione, la notte di Pasqua i catecumeni venivano battezzati e ricevevano come segno della loro nuova condizione una veste bianca (alba).
Nella settima seguente erano invitati a indossare l’alba, la veste bianca, nelle liturgie eucaristiche, segno della vita nuova, segno della luce, fino alla domenica dopo la Pasqua, chiamata domenica in albis perché i catecumeni deponevano la veste bianca (dominica in albis deponendis), sulla tomba di un martire per chiedere a chi aveva testimoniato la fede fino all’effusione del sangue il coraggio, l’umiltà e la perseveranza di seguire Cristo.
Deposta la veste bianca si tornava a indossare l’abito quotidiano, quello della vita di tutti i giorni, perché quello è il tempo e il luogo del loro (e del nostro) martirio, della loro (e della nostra) testimonianza.

 

Come i catecumeni anche noi oggi, nella domenica che veniva detta in albis, deponiamo la veste (più o meno bianca) che abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo sulla tomba di Tommaso detto Didimo, il più incredulo degli apostoli per proseguire con il suo aiuto e la sua intercessione lungo la via angusta che conduce alla vita (Mt 7,14).

 

Tommaso entra nella scena evangelica con un atto di volontà, pochi giorni prima della morte di Gesù, ed esce di scena otto giorni dopo la risurrezione con un atto di fede.
Tra questi due atti, c’è il suo (e il nostro) percorso di discepolo e di credente, una sequela dolorosa che lo porta da una volontà di morte a un desiderio di vita, dalla presunzione di chi crede di farcela, all’umiltà di chi crede e basta.

 

Quando il Signore decise di tornare in Giudea perché il suo amico Lazzaro era ammalato, i discepoli erano titubanti, ma Tommaso si fece avanti e disse: Andiamo anche noi a morire con lui!
Sono le sue prime parole nel Quarto Evangelo.
L’affermazione di un uomo sicuro di sé, che non si nasconde, un discepolo coraggioso che non vacilla, un soldato pronto a sacrificare la vita per il suo comandante.
Ma il piccolo esercito dei discepoli di Gesù tornò in Giudea per restituire la vita a Lazzaro e non per morire, come pensava Tommaso (Gv 11,1-44).

 

Qualche giorno dopo, la sera dell’ultima a cena, Gesù consegnò il suo testamento ai Dodici: Vado a prepararvi un posto. E del luogo dove io vado, conoscete la via.
Tommaso (il discepolo che aveva detto: Andiamo!) gli chiese: Non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via? (Gv 14,2-5).
L’apostolo che aveva consegnato la sua vita con Gesù, che aveva ascoltato le sue parole ed era stato testimone dei segni compiuti, non aveva ancora compreso.
Sognava una vita gloriosa e una morte eroica pur di sfuggire alla banalità del quotidiano.
Io sono la via, la verità e la vita – gli disse Gesù – con una semplicità e una chiarezza che disorientò l’apostolo (Gv 14,6).
Gesù è la Via.
Per mezzo di lui si giunge alla Verità.
E dove c’è Verità, c’è la Vita.
A parte il discepolo amato, nessuno dei Dodici seguì Gesù sulla via del Calvario.
Nessuno di loro rimase sotto la croce (Gv 19,25-26).
E Tommaso, uno dei Dodici, non era in casa nemmeno quando il Signore venne la sera di quel giorno, il primo della settimana.

 

Quando i discepoli gli dissero di aver visto il Signore, egli si mostrò scettico.
Prima di credere voleva vedere con i suoi occhi e mettere le sue mani nelle ferite del corpo di Gesù (Gv 20,24-25).

 

Otto giorni dopo il Signore rispose alla sua pretesa e rientrò in quella casa (Gv 20,26-29).

 

Le ferite che Tommaso non aveva avuto il coraggio di guardare sul Golgota rivelano una storia che non si può possedere, sulla quale non si possono mettere le mani.
Gesù è la Via che si può solo percorrere.
È la Verità che si può solo raccontare.
È la Vita che si può solo amare.
Quella sera, Tommaso non chiese perdono, non giurò davanti a tutti che non si sarebbe mai più comportato così.
S’inchinò e disse: Mio Signore e mio Dio!
Le sue ultime parole nel Quarto Evangelo, la sua uscita di scena.
Smise di essere un discepolo militante e divenne un discepolo credente.
Un uomo pieno di dubbi e paure e, nello stesso tempo, un testimone (martire) animato da una sola certezza: Gesù sarebbe stato il suo Signore e il suo Dio.
Quella sera Tommaso non poteva immaginare dove il Signore l’avrebbe portato, ma sapeva quale fosse la Via.

 

Con la forza del Pane che veniva spezzato nelle piccole comunità l’Ottavo Giorno, il Giorno del Signore, e la grazia di una fede ricevuta Tommaso riprese il cammino.

 

Secondo la tradizione della chiesa antica, dopo avere ricevuto il dono dello Spirito insieme agli altri discepoli, egli lasciò Gerusalemme e si diresse a nord, verso la Siria annunciando la morte e la risurrezione del suo Signore e del suo Dio.

 

Ovunque, nei fratelli e nelle sorelle che incontrava, vedeva il corpo piagato e glorioso del Signore.

 

Dalla Siria proseguì verso Oriente evangelizzando i Parti e, continuando a camminare, raggiunse l’India, dove subì il martirio, trafitto da un colpo di lancia, come quello che sul Golgota aveva fato sgorgare dal fianco di Gesù sangue e acqua (Gv 19,34).

 

Le piaghe che un giorno aveva voluto vedere e toccare nel corpo di Gesù, erano diventate le sue stesse piaghe.
Tommaso detto Didimo, il Gemello, è il nostro fratello gemello, ma lo fu anche di Cristo, tanto da poter affermare, come scrive in una lettera ai Galati l’apostolo Paolo: Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal 2,20).

 


Il cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte ma, alla fine, è sempre risorto perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dl sepolcro.
(Gilbert Keith Chesterton)