L’IMMAGINE DEL BUON PASTORE
21 aprile 2024, IV DI PASQUA B
(At 4,8-12; Sl 118/117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)

 

II buon pastore dà la propria vita per le pecore (Gv 10,11)

 

L’immagine del Buon Pastore era per i cristiani dei primi secoli quello che il Crocifisso è per noi oggi.
Non è raro trovare nelle catacombe la figura più o meno stilizzata del Cristo-Pastore che porta sulle spalle la pecora perduta.
Ho riconosciuto il Figlio come pastore e così ora sono giunto al pascolo del Padre. Le potenze terribili, le attraverserò senza patire danno. Grazie a Te, guardandoti, sfuggirò per buona sorte ai malvagi. Intonerò canti in tuo onore e danzerò con i cori santi. O Parola del Padre indicibile a te onore e potenze nell’eternità (da un inno riportato in un antico papiro).

 

L’evangelista Luca parla del buon pastore raccontando una parabola.
Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca d quella perduta, finché non la trova?
Domanda apparentemente retorica, perché verrebbe da rispondere: Nessuno, se ha un briciolo di buon senso?
Inoltre viene spontaneo chiedersi: Perché il pastore ha condotto il suo gregge nel deserto? Che pascoli poteva trovare per le sue pecore in un luogo di pietre e sabbia?
Il deserto è per definizione un luogo di morte, dove tutti si perdono e muoiono se non hanno una guida.

 

Nel Quarto evangelo, non c’è solo una pecora che si perde ma è tutto un gregge, tutte le novantanove pecore sono smarrite, pecore senza pastore (Mc 6,34), condannate a vivere in un luogo arido, dove non ci sono verdi pascoli e acque tranquille (Sl 23,2), ma sabbia, pietre, sole infuocato e serpenti.

 

Per l’evangelista Giovanni siamo tutti immersi nelle tenebre, tutti siamo perduti se il pastore non viene con la sua luce per riportarci a casa (Gv 1,5).
Ma Gesù non è venuto solo per il suo gregge, egli ha altre pecore che non sono di questo ovile. Anche quelle lui deve guidare, deve portare in salvo.

 

La sua missione di buon pastore si estende a tutti gli uomini, senza distinzione di razza, di nazionalità e neppure di religione.

 

Nel suo ultimo libro, l’Apocalisse, Giovanni racconta questa visione.
Udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo; centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli di Israele.
Ma dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello… (Ap 7,4.9).
Il buon Pastore non porta sulle spalle solo una pecora, e nemmeno solo centoquarantaquattromila, ma una moltitudine immensa che nessuno può contare.

 

Gesù si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14) e ha dato la sua vita per radunare insieme tutti i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52).

 

Per questo – dice – il Padre mi ama: perché do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.

 

Egli è un buon pastore anche perché non pretende la perfezione da chi non può darla.
Chiede solo che impariamo ad ascoltare la sua voce e che con fiducia impariamo a seguirlo (Gv 10,3-4), dovunque egli vada (Ap 14,4).

 

In cambio ci offre una sicurezza perfetta e definitiva, anche in mezzo alle situazioni complicate di questo nostro mondo che ama più che la luce (Gv 3,19).
Io do loro la vita eterna; esse non periranno mai e nessuno le strapperà dalle mie mani (Gv 10,28).

 

Gesù si contrappone a chi dice con un po’ di cinismo che ci sono solo due tipi di pastori, quelli che s’interessano alla lana e quelli che s’interessano alla carne.
Egli spezza questo cerchio infernale di morte e annuncia l’evangelo della vita.
Egli non è venuto per togliere la vita alle sue pecore, ma per donarla.
Siamo ossa delle sue ossa, e carne della sua carne (Gen 2,23) e tutto ciò che riguarda il gregge lo tocca personalmente.
Gesù non è un mercenario che scappa davanti ai lupi che minacciano il gregge, ma è disposto a tutto per portarlo in salvo.

 

Anche a sacrificare la sua vita.

 

Prima di prenderci sulle spalle il buon pastore condivise fino in fondo la nostra condizione e si fece agnello, come aveva profetizzato Isaia.
Il Servo del Signore salì il Calvario come agnello mansueto condotto al macello, COME pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca (Is 53,12).

 

Il Cristo in croce è l’agnello immolato che dona la sua vita prima di riprenderla di nuovo.
Egli doveva attraversare la valle oscura della morte per radunare tutti quelli che erano in potere della morte, doveva scendere agli inferi per far salire nel regno del Padre suo tutti i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52; Is 49,5).

 

La croce non pone fine alla sua opera, ma la porta a compimento (Gv 19,30).
Le braccia di Gesù distese sul legno orizzontale sono pronte per portare sulle spalle chi si è smarrito.
La prima pecora perduta che il Signore raccolse in quel luogo deserto e arido del Golgota fu un ladro che, prima di morire, gli chiese la grazia di un ricordo.
Oggi – gli disse Gesù – sarai con me, salvo, in paradiso (Lc 23,40-43).

 

Ma più perduto ancora di quel ladro gentile, era l’altro che imprecava e gridava perché non voleva saperne di morire (Lc 23,39).
Chissà, forse anche lui, alla fine, ha allungato la mano verso la mano di Gesù e gli ha chiesto con il suo ultimo respiro di prenderlo sulle spalle e di portarlo con sé.

 


Facci pascolare, noi piccolissimi, come un gregge. Sì, Maestro, dacci con abbondanza il tuo cibo, che è la Giustizia. Sì, Pedagogo, sii nostro Pastore fino alla Santa Montagna, fino alla Chiesa che s’innalza, che domina le nubi, che tocca il cielo.
(Clemente di Alessandria)