IL VERBO RIMANERE
28 aprile 2024, V DI PASQUA B
(At 9,26-31; Sl 22/21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8)
Rimanete in me e io in voi (Gv 15,4)
Il verbo rimanere (menein) è ripetuto dieci volte nel capitolo quindicesimo dell’evangelo di Giovanni (Gv 15,4-10) e ritorna con insistenza in ogni sua pagina, dall’inizio, quando il Verbo si fece carne e prese dimora (il verbo è sempre rimanere) in mezzo a noi (Gv 1,14), alla fine, quando Gesù, parlando del Discepolo Amato, disse a Pietro: Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi (Gv 21,22-23).
Rimanere fu l’esperienza dei primi due discepoli del Battista che seguirono Gesù e gli chiesero dove dimorasse (il verbo è sempre lo stesso, rimanere).
Gesù li invitò a seguirlo ed essi videro il luogo dove dimorava (rimaneva) e quel giorno rimasero con lui (Gv 1,37-39).
Rimanere è il verbo della sequela.
Ma, prima ancora del nostro desiderio di seguire il Signore, c’è il desiderio di Dio che nel Figlio vuole rimanere con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20), fino al suo ritorno, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
Chi vuole seguire il Signore non è chiamato solo a riconoscere, accogliere, vedere, capire, credere, conoscere, amare Gesù, ma soprattutto a scoprire dove Gesù dimori per rimanere con lui.
Paradossalmente questo verbo statico parla di movimento, questa azione passiva è molto produttiva.
Chi rimane in Gesù e nella sua Parola, come il tralcio è unito alla vite, porta molto frutto.
Al contrario, chi vuole fare da sé pensando di poter vivere meglio staccandosi di Gesù, voltandogli le spalle, diventa un ramo secco, sterile, che sarà raccolto, gettato nel fuoco e bruciato.
Rimanere in Gesù e nella sua Parola non è un’esperienza vagamente consolatoria, come quella di una madre che culli il suo bambino.
Assomiglia più a un doloroso intervento chirurgico, come quello del contadino che pota il tralcio fino a farlo lacrimare perché porti più frutto.
Se rimangono in noi, le sue parole sono vive, efficaci e più taglienti di ogni spada a doppio taglio; esse penetrano fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12).
Per essere discepoli di Gesù è necessario abitare nella sua Parola, lasciare che questa penetri nel più profondo dell’essere e sia accolta, assimilata e divenga osso delle nostre ossa e carne della nostra carne (Gen 2,23).
È necessario vivere l’esperienza dolorosa e viva del servo del Signore che non si oppone a Dio che ogni mattina fora il suo orecchio (Is 50,5).
Nemmeno la madre di Gesù, che rimase con il Figlio trent’anni a Nazareth, fu dispensata da tutto questo doloroso e fecondo travaglio, come le profetizzò nel Tempio il vecchio Simeone: Anche a te una spada trafiggerà l’anima (Lc 2,35).
Ma il nostro rimanere in lui è condizionato dalla carne che è debole (Mt 26,41).
E ad esser forte non è il nostro spirito ma la nostra ottusa presunzione di farcela da soli, come dimostrarono i discepoli l’ultima sera che rimasero con Gesù.
Simon Pietro, che a Cafarnao aveva detto con molta onestà e sincerità, che loro, i Dodici, non avrebbero saputo dove andare staccandosi da lui e dalle sue parole di vita eterna (Gv 6,66), durante l’ultima cena giurò solennemente davanti a tutti che lui era disposto a dare la sua vita per Gesù (Gv 13,37).
Ma, poche ora dopo, davanti a una giovane portinaia e a qualche servo che gli chiedeva se per caso non fosse anche lui uno dei discepoli di quell’uomo, Simon Pietro per tre volte negò e per due volte ripeté: Non lo sono! (Gv 18,17.25-27).
Ma in questa sua triplice negazione che racconta una storia di tradimento è nascosta anche una profonda verità, con cui ogni discepolo, prima o poi, deve fare i conti.
Solo Gesù può dire IO SONO la vite vera, mentre noi dobbiamo riconoscere di non essere nulla se ci separiamo da lui, solo tralci secchi che sono raccolti e gettati nel fuoco per essere bruciati.
Ma se un tralcio bruciato non può più essere ricuperato, a un discepolo che ha tradito è sempre data la possibilità di riprendere vita, per quanto arida sia diventata la sua anima.
Dice Aelredo di Rievaulx: Se in virtù di un movimento del cuore, e non dei piedi, l’uomo si è orgogliosamente allontanato dal Bene supremo e ha sepolto dentro di sé l’immagine di Dio, mi sembra evidente che sarà in virtù di un movimento del cuore che l’uomo potrà umilmente tornare a quel Dio che l’ha creato, e ritrovare la sua immagine (Speculum caritatis I,8).
Simon Pietro dopo essersi allontanato da Gesù, con un movimento del cuore ritornò da lui e permise alla parola del Signore – mi ami tu più di costoro? – (ripetuta tre volte, come tre volte aveva negato) di entrare nella profondità del suo essere fino a farlo sanguinare e guarire (Gv 21,15-17). Da quel giorno, con tutte le inevitabili cadute, i conflitti e i dubbi, Simon Pietro rimase unito a Gesù come il tralcio alla vite.
Ma c’è un discepolo che rimase accanto al Signore fino alla fine.
È il Discepolo Amato che appoggiò il capo sul petto di Gesù durante la cena (Gv 13,25), che lo seguì dentro il cortile del sommo sacerdote (Gv 18,15) e che poi sul Golgota stava con la madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleofa e Maria di Magdala (Gv 19, 25-26).
E proprio per essere rimasto fino alla fine il Discepolo Amato non vide nella croce un legno secco che gli uomini raccolgono, gettano nel fuoco e bruciano, ma la vite vera piantata per sempre nel cuore della storia umana, l’albero della vita che continua a portare molto frutto.
Proprio per essere rimasto egli vide e credette (Gv 20,8).
Il primo augurio dei vecchi monaci a un monaco nuovo è: Buona Pazienza! Tale pazienza – il rimanere volontariamente sotto (tale è il significato delle due parole che compongono il termine greco hipomonè, pazienza) – è una benedizione che cela in sé una grande energia, perché ti spinge sulla strada della morte volontaria, della sepoltura nel terreno buono: lì si sprigiona, si attiva un qualche dinamismo nascosto e concentrato dentro di te, e il seme della tua esistenza germoglia, fruttando cento volte tanto (Lc 8,8).
(Basilio di Iviron)