NEL QUARTO EVANGELO
5 maggio 2024, VI DI PASQUA B
(At 10,25-26.34-35.44-48; Sl 98/97; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17)

 

Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi (Gv 15,9)

 

Nel Quarto Evangelo la parola ‘amore’ è all’inizio e alla fine del racconto dell’Ultima Cena.
Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1).
Ed io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi ed io in loro
(Gv 17,26).

 

L’amore dunque segna il confine di quell’ultima sera vissuta da Gesù con i suoi amici.
Poi, dopo avere detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron… (Gv 18,1) per portare a compimento la sua ora.
I Dodici erano rimasti in Undici perché Giuda era sprofondato nella notte (Gv 13,30) ma sono certo che l’amore di Gesù abbia raggiunto anche lui in fondo all’abisso del suo tradimento.

 

Ma questo amore non è solo all’inizio e alla fine dei discorsi di Gesù durante l’Ultima Cena, è il cuore di tutta l’opera che Dio compie in Lui (Donatien Mollat).

 

Opera che inizia con il più incredibile e paradossale atto d’amore della storia umana.
Il Padre ha donato agli uomini il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna (Gv 3,16-17) e per riversare su di essi l’amore con il quale l’ha amato prima della creazione del mondo (Gv 17,24.26).

 

Opera che termina con un atto altrettanto incredibile, paradossale e scandaloso quando Gesù con il suo ultimo respiro donò lo Spirito (Gv 19,30) e versò il suo sangue fino all’ultima goccia (Gv 19,34).

 

L’amore, dunque, riassume tutta la vita di Gesù fino al suo compimento (Gv 19,30).

 

Gesù non è venuto, non ha parlato, non ha agito e non è morto che per amore e a chi accoglie la sua parola non chiede che di amarlo.

 

Simon Pietro ebbe la presunzione di potere rispondere all’amore di Gesù con un amore altrettanto totale.
Darò la mia vita per te! gli disse durante la cena (Gv 14,37).
Era un uomo troppo pieno di sé per comprendere che amare Gesù non è un atto di volontà, ma di accoglienza.

 

Come gli insegnò il discepolo di cui non si dice il nome.
A differenza di Pietro, durante l’Ultima Cena, il Discepolo Amato non parlò, non chiese spiegazioni e non fece promesse, ma appoggiò il capo sul petto di Gesù e ascoltò il battito del suo cuore (Gv 13,25).
Non è chiamato il discepolo-che-ama-Gesù, ma il Discepolo Amato da Lui.

 

Appoggiare il capo sul petto di Gesù, ascoltare il battito del suo cuore non è un’esperienza sentimentale, ma una resa di fronte al paradosso di un Dio che ci ama fino alla fine e ci ama in un modo così sconcertante che gli stessi discepoli vi si sono ribellati.
Simon Pietro non poteva accettare che il suo Signore e Maestro si comportasse come uno schiavo e s’inginocchiasse davanti a lui, s’inchinasse ai suoi piedi e s’accingesse a lavarglieli (Gv 13,2-11).
Non era questa la sua idea del Messia.

 

Ma amare Gesù significa riconoscerlo come maestro e Signore (Gv 13,13-14) proprio quando si abbassa, perché questa è la volontà del Padre suo.

 

L’amore del discepolo per Gesù e per il Padre che l’ha mandato, prima di essere un sentimento da provare o un gesto da compiere, è un atto di fede.
Non qualcosa che ha a che vedere con la fede, ma non è altra cosa che la fede.
La fede implica sempre questo amore e questo amore esige la fede.
Amare Gesù è credere in lui, e credere in Lui è amarlo, come disse Gesù ai discepoli al termine del suo ultimo discorso, prima di affrontare la sua ora: Il Padre stesso vi ama, poiché voi mi avete amato e avete creduto che io sono venuto da Dio (Gv 16,27).

 

Ma quando giunse la sua ora, quella di passare da questo mondo al Padre (Gv 13,1), i suoi amici lo abbandonarono e fuggirono invece di rimanere con lui (Mc 14,50), Giuda lo tradì (Gv 18,5) e Simon Pietro lo rinnegò tre volte (Gv 18,17.25-27).

 

In quell’ora il potere delle tenebre sembrò più forte dell’amore e provocò in tutti loro una dispersione.
Il Diavolo (come dice la parola stessa, dia-ballo) ha il potere di dividere.
Anche il termine ebraico male (‘ra’) sembra indicare qualcosa di frammentato, spezzato, come un vaso d’argilla che va in frantumi (Sl 2,9).

 

Ma è proprio per rimettere insieme i cocci del nostro cuore spezzato (Sl 34,19) che il Padre ha mandato il Figlio nel mondo (Gv 3,17) e per donarci quella pace che il mondo non può dare (Gv 14,27).
Pace (shalom)
è la prima parola che Gesù rivolse ai suoi amici dopo essere risuscitato dai morti (Gv 20,19.26; Lc 24,36).
Parola che – insegnano i maestri – si contrappone a ‘male’ (‘ra’) perché indica un’armonia assoluta in cui anche gli opposti sono combinati, conciliati, connessi (Haim F. Cipriani).

 

Con il dono del suo spirito e del suo sangue Gesù ha riconciliato la terra al cielo.

 

L’ora di Gesù giunse sul Golgota quando, prima di consegnare lo spirito, disse: È compiuto (Gv 19,30).
Così Gesù amò i suoi fino alla fine.
E così alcuni dei suoi, il Discepolo Amato e la madre di Gesù, la sorella di sua madre Maria madre di Clèopa e Maria di Magdala, senza fare nulla, senza dire una parola, ma rimanendo presso la croce, amarono Gesù fino alla fine (Gv 19,25).

 


L’uomo la cui anima è divisa complicata, contraddittoria, non è impotente: il cuore della sua anima, la forza divina nella sua profondità è in grado di agire su di essa, cambiandola, legando insieme le forze conflittuali, amalgamando gli elementi divergenti. Questa unificazione dell’anima non è mai definitiva. Regolarmente la tentazione sormonta l’anima, e regolarmente la grazia innata sorge nuovamente dalle sue profondità e promette ciò che è assolutamente incredibile: è possibile diventare intero e uno.
(Martin Buber).