SE NON FOSSE STATO
19 maggio 2024, PENTECOSTE (B)
(At 2,1-11; Sl 104/103; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;16,12-15)

 

Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso (At 2,2)

 

Se non fosse stato per il fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e le lingue di fuoco i discepoli di Gesù non sarebbero usciti dalla casa dove si trovavano tutti insieme, nello stesso luogo, al sicuro. Dentro le mura protettive della loro piccola torre di Babele, parlavano la stessa lingua, si consolavano con gli stessi ricordi e s’illudevano che questo intendesse Gesù con il dono del Consolatore.

 

Com’era accaduto a Babele, dove gli uomini volevano costruire una città, farsi un nome e parlare un’unica lingua (Gen 11,1).

 

A Gerusalemme, cinquanta giorni dopo la morte e la risurrezione del Signore Gesù, i discepoli rimanevano uniti per difendersi da un mondo ostile che aveva ucciso il Signore e attendere in pace il suo ritorno.
Come se la paura potesse generare vita e la chiusura potesse aprire alla verità.

 

Per la festa di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, arrivavano a Gerusalemme uomini e donne da ogni angolo dell’impero che parlavano dialetti diversi e indossavano abiti dai colori e dalle fogge più diverse.
A Pentecoste si festeggiava per il dono delle primizie e della Legge.
La terra ha ricevuto un seme e ha restituito spighe cariche di chicchi d’orzo.
Sul monte dalla Voce dell’Uno sono fiorite Dieci Parole per tutti gli uomini (Es 19,20).
Sul Sinai – insegnano i maestri – la Voce divina si era divisa in settanta lingue, quelle di tutti i popoli della terra.

 

A Gerusalemme, mentre la gente affollava le strade e le piazze, comprava gli animali e portava ceste piene di frutti della terra, un gruppo di discepoli se ne stava barricato in casa.

 

Cinquanta giorni prima lo Spirito era sceso su un piccolo monte fuori Gerusalemme, ma i discepoli erano fuggiti via pieni di paura (Mc 14,50).
Cinquanta giorni dopo erano ancora in casa, credevano di difendere la Luce, ma in realtà la stavano lentamente spegnendo.

 

Come otto secoli prima si stava spegnendo la luce per Elia, il profeta di fuoco.
L’angelo per due volte gli offrì un pane e una parola (1 Re 19,5) e il profeta riprese il cammino verso il luogo dove avrebbe incontrato il Dio che parlava con Mosè, faccia a faccia, come un uomo parla con il proprio amico (Es 33,11).
Nell’Oreb ci fu il fuoco, il vento e il terremoto, come ai tempi di Mosè.
Ma Dio non era.
Poi una voce di silenzio sottile, davanti alla quale il profeta si coprì il volto (1 Re 19,11-13).

 

La fede di Elia, purificata dalla depressione e dalla sconfitta, si affinò e si approfondì.
Elia tornò indietro con un coraggio e una forza che non conosceva, che non gli appartenevano.
Parlava una lingua nuova dopo aver udito la voce di Dio nel silenzio.
Dentro la casa dove stavano i discepoli, tutti insieme, nello stesso luogo, la verità era ridotta a memoria senza vita, una falsa unità che spegneva lo Spirito.
Essi credevano di vivere ma in realtà, come Elia, erano in attesa della morte.
O di un angelo e di una parola.
Poi la loro piccola torre di Babele fu scossa da un fragore improvviso, quasi un vento che si abbatte impetuoso.
La rassicurante lingua della paura fu confusa da lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di essi.

 

Ciascuno con la propria lingua.

 

Quando Mosè scese dal monte consegnò al popolo Dieci Parole.
Elia tornò dal Sinai e trasmise al suo successore, Eliseo, altre parole ancora.

 

A Pentecoste il Signore consegnò ai discepoli una Voce dalle molteplici forme affinché la trasmettessero con umiltà, senza presumere di poterci costruire una lingua valida per tutti e una grammatica dalle regole precise.
E, finalmente, i discepoli uscirono dalla casa e cominciarono a parlare in altre lingue.

 

Miracolo dello Spirito, in quel giorno di Pentecoste.
Miracolo che si ripete dal principio da quando Dio disse: Sia la luce! E la luce fu (Gen 1,3).

 

Gli apostoli parlavano tutti insieme, senza confusione e ognuno li sentiva parlare nella sua lingua. La loro voce era una sinfonia. Solo la musica compie il miracolo di mettere insieme contemporaneamente strumenti e voci diverse creando armonia e non caos.

 

Liberato dalla cima del Golgota, lo Spirito soffia, senza barriere e trasmette la voce dell’Uno, in un’infinita varietà di linguaggi.
Per alcuni sarà un’esperienza potente come quella di Mosè sul Sinai, tra fuoco e terremoto.
Per altri sarà un dono silenzioso e leggero come la voce sottile percepita da Elia.
Per tutti sarà sempre un incontro sorprendente e imprevedibile.

 

La voce dello Spirito risuona nelle liturgie di un tempio e nella poesia dei poeti, nella musica dei musicisti e nel chiasso dei bambini, nella varietà dei fiori e nel canto degli uccelli, nell’orzo agitato dal vento a primavera e nel silenzio degli amanti.
Lo Spirito soffia nelle case dove uomini e donne s’incontrano, parlando la propria lingua con libertà e ascoltando con amore la lingua dell’altro.

 

Quel giorno i discepoli si rivolsero a uomini e donne di tutti i popoli della terra e tutti li sentirono parlare nella propria lingua nativa.

 

Cinquanta giorni prima, alle tre del pomeriggio della vigilia della festa di Pasqua, dopo che tutto fu compiuto, dalla croce Gesù emise lo Spirito (Gv 19,30).
Un vento leggero che iniziò a spirare dalla cima del Golgota fino agli estremi confini della terra. Un vento libero che soffia dove vuole, ma non sai di dove viene né dove va (Gv 3,8).
Ma ne senti la Voce, l’infinita voce di Dio dentro la storia complicata degli uomini.

 


Le parole sono ricettacoli dello spirito. Solo dopo che abbiamo acceso la luce nelle parole siamo in grado di guardare ai tesori che esse contengono. Solo dopo che siamo penetrati dentro a una parola diventiamo consapevoli delle ricchezze contenute nelle nostre anime.
(Abraham J. Heschel, Il canto della libertà)