CON I SUOI ULTIMI DISCORSI
26 maggio 2024, SANTISSIMA TRINITÀ (B)
(Dt 4,32-40; Sl 33/32; Mt 28,16-20)
A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (Mt 28,18)
Con i suoi ultimi discorsi Mosè ricordò al popolo l’evento più straordinario della sua incredibile storia: Israele aveva ricevuto la grazia di ascoltare la voce di Dio senza morire. Nel deserto un popolo era morto ed era rinato perché la parola divina ha il potere di generare.
Nella lingua del testo sacro il termine parola significa anche cosa, evento, fatto.
La parola che non genera qualcosa è sterile, una chiacchiera vuota e inutile.
Abramo sentì la voce di un Dio che non conosceva, e percepì una forza cui non seppe resistere. Obbedì a un ordine e si mise in viaggio (Gen 12,1).
Molti anni dopo, Isacco, il figlio della promessa, legato e disteso sopra una catasta di legna sentì la voce di Dio chiamare Abramo. Vide il padre gettare il coltello e sciogliere la legatura. Sulla cima del Moria Isacco sperimentò che la Parola di Dio ha il potere di legare e sciogliere (Gen 22,11).
In sogno Giacobbe vide una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio che salivano e scendevano.
Mentre dormiva sentì una voce che rinnovava la promessa e, quando si svegliò, Giacobbe riconobbe che Dio era in quel luogo e lui non lo sapeva (Gen 28,16).
Mosè vide un roveto che bruciava senza consumarsi e sentì una voce che gli ordinava di togliersi i sandali (Es 3,4).
Dio non si vede, ma la sua voce fa morire e fa vivere, sconfigge i potenti e restituisce la libertà agli schiavi, apre strade nel mare e crea sentieri nel deserto.
C’è una curiosa anomalia nella lingua ebraica.
Il plurale del sostantivo parola nella Torah è maschile, mentre nelle pagine del Talmud diventa femminile.
I maestri che si sono interrogati sulla questione non hanno visto nell’irregolarità un errore grammaticale ma una verità teologica.
La parola divina è maschile e femminile.
Maschile nel testo sacro e femminile nei testi della tradizione.
Il seme della parola divina feconda le parole umane e l’incontro genera vita.
Per tre anni gli apostoli erano stati con Gesù, l’avevano veduto con i loro occhi, toccato con le loro mani, avevano udito la sua voce (1Gv 1,1).
Prima di tornare al Padre, sulla cima del monte in Galilea, Gesù affidò ai suoi amici il compito di far discepoli tutti i popoli, insegnando loro a osservare tutto ciò che aveva comandato, con la promessa di essere con loro tutti i giorni.
Non è un gruppo di perfetti.
Manca Giuda che aveva tradito Gesù e a capo c’è Pietro che l’aveva rinnegato.
Da una parte la pienezza della Parola, dall’altra la povertà di uomini mancanti e dubitanti.
Dio non parla più da un fuoco terribile e spaventoso, ma dalla vita di uomini timorosi e imperfetti. Il tesoro della parola è portato da vasi di creta, vuoti e fragili e così manifesta tutta la sua potenza (2 Cor 4,7).
Ascolta Israele (Dt 6,4).
Samuele rimproverò a Saul la disobbedienza alla parola del Signore e gli disse: Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore? (1 Sam 15,22).
Obbedire a Dio (come dice la parola stessa) è un atto di ascolto, e l’ascolto è un atto di accoglienza di una parola che scende dal cielo e feconda la terra e genera vita (Is 55,11).
Il discepolo che obbedisce (leggi: ascolta) la parola di Dio e la accoglie nel cuore genera vita intorno a sé.
Israele era un popolo dalla dura cervice (Es 32,9), ribelle e ostinato, ma nel deserto imparò ad ascoltare la voce del Signore, l’ascolto generò speranza e la speranza permise al popolo di attraversare il deserto.
Nelle steppe di Moab, alle soglie della terra promessa, Mosè rivolse ai figli di Israele le sue ultime parole.
Per quarant’anni a lui era stata concessa la grazia e il peso di parlare con Dio faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico (Es 33,11).
Mosè prestava la sua voce balbuziente a un Dio che parlava nel fuoco.
Ora che aveva fatto quanto doveva fare poteva andare.
Morì sulla bocca di Dio, dice alla lettera il Deuteronomio, con la Parola di Dio sulla bocca (Dt 34,5).
Il suo compito era terminato ma il viaggio e la sfida del popolo – ascoltare la voce di un Dio che non si vede e vivere – continuavano.
Come Mosè anche Gesù se ne andava.
Al suo piccolo incompleto popolo lasciava il compito di uscire dalla terra di Israele per entrare nella terra promessa che aveva i confini del mondo intero.
Nella conclusione dell’evangelo di Matteo si ritrova l’inizio (Mt 1,23).
Emmanuele, Dio con noi, è il nome del Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), presenza che genera speranza, una speranza che dà salvezza.
Al fragile gruppo dei discepoli Gesù affidò la promessa fragile di una parola.
La voce udita da Abramo, la parola che sciolse la legatura di Isacco, il sogno leggero di Giacobbe, il nome di Dio rivelato a Mosè nel fuoco di un roveto.
E il nome di un Dio bambino, Emmanuele.
Di fronte al mistero di un Dio che non si vede, anche noi, come i discepoli, ci prostriamo con tutto l’amore del cuore e, come loro, dubitiamo con tutto il peso della carne.
Eppure, con una certezza che non sapremmo mai spiegare, senza vederlo, continuiamo ostinatamente a credere che Egli è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.
Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, il rabbì di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: Dove abita Dio?
Quelli risero di lui: Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?
Ma il rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: Dio abita dove lo si lascia entrare.