MOSÈ PENSAVA ALL’ALLEANZA
2 giugno 2024, CORPUS DOMINI (B)
(Es 24,3-8; Sl 116/115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26)

 

Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi (Es 24,8)

 

Mosè pensava all’alleanza come a una sorgente riaffiorata all’improvviso nel deserto della storia di Israele dopo quattrocento anni di schiavitù in Egitto.
Dio non si era dimenticato delle promesse fatte ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe e chiese a Mosè di prendere per mano il suo popolo e di condurlo verso la Terra Promessa.
Dopo tre mesi dall’uscita dall’Egitto i figli di Israele giunsero alle falde del Sinai e Mosè chiese se fossero disposti a continuare l’opera iniziata e a suggellarla con il sangue. 

 

Anche Abramo rinnovò con il sangue il suo patto con Dio.
Accadde in un momento di profonda crisi: Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco.
Poi il Signore lo condusse fuori e gli fece alzare gli occhi al cielo: Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle; tale sarà a tua discendenza.
Abramo credette al Signore, sacrificò gli animali e con il sangue dei sacrifici confermò la sua volontà di continuare a camminare con Dio (Gen 15,1-18).

 

Abramo ebbe un solo figlio, Isacco.
Una notte, a Bersabea, il Signore gli apparve in sogno e gli promise di benedire e moltiplicare la sua discendenza.
Isacco non sollevò obiezioni e confermò la sua fedeltà al Dio di suo padre, un Dio che realizza storie molto lentamente. In quel luogo costruì un altare, piantò la tenda e i suoi servi scavarono un pozzo (Gen 26,25).
Niente sangue questa volta ma pietre, tende e acqua, solidità, riparo e vita.

 

Giacobbe, figlio di Isacco, ebbe dodici figli e sembrava che (finalmente) le promesse di Dio si stessero realizzando.
Ma le vie del Signore sono misteriose e infinite. La dolorosa e provvidenziale storia di Giuseppe (Gen 37 – 50) portò Giacobbe e i suoi figli in Egitto, dove vissero e morirono, si moltiplicarono e diventarono schiavi di Faraone per quattrocento anni.
Un tempo infinito che sembrò spegnere la più incredibile storia di alleanza.

 

Ma Dio non dimentica le sue promesse, anche se i suoi tempi non sono i nostri, anche se per il Signore mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte (Sl 90/89,4).

 

L’alleanza iniziata con Abramo e continuata da Mosè e con il popolo che Dio aveva scelto, fu portata a compimento da Gesù, quando giunse la sua ora.

 

Nella sua ultima settimana a Gerusalemme e su questa terra, il Signore diede indicazioni precise a due discepoli perché si recassero in città per preparare la Pasqua.
Essi andarono e incontrarono l’uomo con la brocca, lo seguirono ed entrarono in una casa. Il padrone di casa li invitò a seguirlo e li condusse in una grande sala al piano superiore, arredata e già pronta per mangiare la Pasqua.
I discepoli percepivano che erano giorni decisivi, ma non potevano immaginare come lo sarebbero stati.
In quei giorni l’alleanza sarebbe stata non solo rinnovata ma anche profondamente cambiata.

 

Quando Mosè chiese al popolo se fosse disposto a eseguire tutti comandamenti che il Signore aveva dato, il popolo rispose a una sola voce (con una curiosa inversione dei verbi): Quanto ha detto il Signore, noi lo eseguiremo e vi presteremo ascolto.
Per suggellare questa solenne promessa Mose raccolse in un catino il sangue degli animali sacrificati: metà del sangue lo sparse sull’altare e l’altra metà sui figli di Israele.
Quel giorno fu stabilito un patto di sangue tra Dio e il suo popolo.

 

Anche Gesù siglò con il sangue la nuova alleanza tra Dio e l’umanità.
Ma non con il sangue di tori e agnelli (Is 1,11-12; Sl 50,8-13), con il suo.
Durante l’Ultima Cena non fu redatto alcun testo scritto, non fu celebrato alcun rito solenne, non fu richiesto alcun giuramento.
Spezzando il pane e passando il calice del vino, Gesù donò se stesso ai discepoli e il Padre firmò con il sangue del Figlio la nuova ed eterna alleanza senza pretendere nulla in cambio.
La nuova alleanza è dono, è grazia.

 

Le solenni promesse fatte a Dio dal popolo sul Sinai, furono spazzate via dal caldo del deserto e dalla fatica del cammino. Israele mormorava e trasgrediva, come se la parola data e il sangue degli animali versato sulle pietre dell’altare e su di loro non avessero alcun valore.

 

Anche i solenni e presuntuosi giuramenti di fedeltà dei discepoli e di Pietro in particolare (Mc 14,31) furono smentiti da quanto accadde dopo l’arresto di Gesù.
Non è un caso che nell’evangelo di Marco il racconto di quell’ultima sera sia incastonato tra il tradimento di Giuda e la predizione del rinnegamento di Pietro (Mc 14,18-21; 26-31).
Giuda Pietro e gli altri discepoli mangiarono il pane e bevvero il vino dato da Gesù ma poi, quando Gesù fu consegnato, tutti lo abbandonarono e fuggirono (Mc 14,50).
Nessuno dei suoi amici stava sul Golgota quando il corpo di Gesù fu preso, spezzato e il suo sangue versato.

 

Ma chi pensava di chiudere per sempre il capitolo Gesù di Nazareth, in realtà rese eterno il suo sacrificio.
Sul Golgota non fu compiuta un’esecuzione capitale, ma fu donata all’umanità una grazia di importanza capitale.

 

Sotto la croce c’era un centurione, un soldato che si trovava là per caso o per dovere.
Eppure, nel silenzio che avvolse il Golgota alle tre del pomeriggio, egli comprese il mistero che stava davanti ai suoi occhi e si prostrò ai piedi di Gesù, il Figlio di Dio (Mc 15,39), come noi ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia per nutrirci del corpo e del sangue del Signore Gesù, il pane che ci nutre per la vita eterna (Gv 6,33.50-51.54-58).

 


Quasi abitualmente, appena fatta la comunione mi calmavo e talvolta, anche solo accostandomi al sacramento, mi sentivo immediatamente così riconfortata nell’anima e nel corpo da restarne sbigottita. Era come se in un attimo si dileguassero tutte le tenebre dell’anima e, levatosi il sole, vedessi chiaramente tutte le balordaggini che mi avevano irretita.
(Teresa d’Avila)