GIOBBE PIÙ CHE UOMO
23 giugno 2024, XII PER ANNUM B
(Gb 38,1.8-11; Sl 107/106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41)
Maestro, non t’importa che siamo perduti? (Mc 4,38)
Giobbe più che uomo che sopporta le sventure con corretta dignità, è uomo che non si stanca di bussare alla porta di Dio per chiedergli, con parole religiosamente poco corrette, se gli importi qualcosa di noi.
La stessa drammatica domanda che i discepoli gridarono a Gesù che se ne stava a poppa e dormiva, mentre la barca rischiava di affondare.
Il problema – sia per quanto riguarda Giobbe, che i discepoli (e noi) – non è tanto la questione del male e della sofferenza, quanto piuttosto quella dell’uomo sofferente di fronte a Dio. A un Dio che chiamiamo Padre, importa che i suoi figli si perdano?
Questa è la domanda che angoscia Giobbe la cui vita sta affondando in un letto di cenere e letame.
E questa è la domanda che angoscia i discepoli, la cui barca sta affondando travolta dalla tempesta, nonostante il Signore sia là con loro.
La moglie di Giobbe, con poca compassione e molto sarcasmo, liquidò la domanda e il marito con queste parole: Ecco a che cosa è servita la tua integrità. Maledici Dio e muori! Senza sprecare parole le rispose che parlava come parlerebbe una stolta (Gb 2,9-10).
Al disprezzo della moglie si associò la devota saccenteria di quattro amici venuti a consolarlo. La loro fastidiosa arroganza scatenò la reazione del povero Giobbe che li invitò a stare zitti: Magari taceste del tutto! Sarebbe per voi un atto di sapienza.
Con il vostro catechismo avete detto un cumulo di menzogne, i vostri moniti sono sentenze di cenere (Gb 13,4-5.12).
Gesù non rispose alla domanda dei discepoli, quando gli chiesero se gli importasse qualcosa di loro. Si limitò a minacciare il vento e a dire al mare di calmarsi.
Poi si rivolse ai discepoli rispondendo alla loro domanda con un’altra domanda.
In mezzo all’uragano anche il Signore rispose alle domande di Giobbe – che gli chiedeva se gli importasse qualcosa di lui e della sua vita onesta – con una domanda: Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? (Gb 38,2).
Questa è la prima di una sfilza di domande che consegnarono a Giobbe una risposta.
Sono le domande più che le risposte che fanno parte del cammino del credente, perché invitano a mettersi in cammino verso una meta che sta oltre le nostre limitate capacità di comprensione.
Passiamo all’altra riva – dice Gesù ai discepoli.
Traduzione sensata dal momento che li aveva invitati a salire sulla barca e a prendere il largo, ma nel testo greco non c’e scritto altra riva.
L’evangelo dice letteralmente: andiamo o passiamo oltre.
Quella traversata non aveva l’obiettivo di raggiungere un luogo sulla sponda opposta del lago, ma un'altra immagine di Dio. Gesù chiese loro di lasciarsi alle spalle la presenza rassicurante della folla, la solida sicurezza della terraferma, le ragionevoli definizioni dei catechismi e di avviarsi nella notte verso l’ignoto.
Senza la grande tempesta che si abbatté sulla loro fragile imbarcazione, non ci sarebbe stata alcuna domanda.
E senza la domanda non ci sarebbe stato alcun incontro con il Dio che ancora non conoscevano.
Anche Elia incontrò il Signore (di cui portava il nome, ma che ancora non conosceva) dopo avere attraversato l’oscura valle della morte. Anche per lui ci fu il vento, il terremoto e il fuoco, ma il Signore non era là, era in una voce di silenzio sottile che gli parlò dopo il vento, il terremoto e il fuoco (1Re 19,4-12).
Perché avete paura? Non avete ancora fede?
Le parole di Gesù non sono un atto di accusa, ma una domanda e la domanda è un invito non accontentarsi di avere il Signore sulla barca per sentirsi al sicuro.
La presenza di Gesù con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 18,20), non significa che il male, l’ingiustizia e la sofferenza ci saranno risparmiate.
La fede non è un’esperienza di benessere pacificante, ma un cammino dietro il Maestro che ci invita a non perdere mai la speranza, neppure in mezzo alle tempeste della vita.
L’itinerario del credente comincia con la gioia della luce ma, a mano a mano che si progredisce nell’esperienza della fede, tutto ciò che prima era luminosissimo si fa meno chiaro, come se fosse attraversato da nubi. All’inizio queste nubi sembrano passeggere ma poi, inoltrandosi sempre più dentro il Mistero, si scoprono non soltanto permanenti, ma anche sempre più oscure. Talmente oscure e permanenti da dover concludere che è proprio nella caligine l’abitazione di Dio (Gregorio di Nissa).
È in mezzo all’uragano che Dio si rivolge a Giobbe.
Alla fine Giobbe ebbe una risposta da Dio o, per essere più precisi, con le domande che Dio gli pose trovò la risposta che pretendeva dal Santo Benedetto.
Paradossale, ovviamente, come tutte le risposte del Signore.
Ecco, non conto niente – disse – che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò.
Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto (Gb 40,4-5; 42,5).
Il Silenzio davanti a Dio è la vera conoscenza.
I discepoli, dopo avere visto la grande tempesta ridotta dal Signore a grande bonaccia, si chiedevano chi fosse costui che anche il vento e il mare gli obbediscono.
Dovranno andare ancora oltre, attraversare altre tempeste prima di riuscire a trovare una risposta e a fare, come Giobbe, la più grande professione di fede: Non so!
Quando la grande tempesta si abbatté su Gesù, tutti abbandonarono la nave e fuggirono (Mc 14,50), lasciandolo affondare da solo.
Rimase tre giorni in fondo all’abisso della morte, come il profeta Giona (Gio 2,1), prima di essere risuscitato e non essere più là, ma oltre, altrove.
Di fronte alla tomba vuota le donne furono piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno perché avevano paura (Mc 16,8).
Con la parola paura termina l’evangelo di Marco, eppure nel silenzio delle donne e nel loro non sapere e (perché no?) anche nella loro paura di fronte al mistero di Dio che muore e risorge, c’è la fede grande di chi sa con certezza, senza poterlo dimostrare né spiegare, che a Dio importa se noi moriamo.
Ho voluto indagare i contorni di un’isola, ciò che ho scoperto sono però i confini dell’oceano.
(Ludwig Wittgenstein)