QUANDO IL SIGNORE MANDÒ AMOS
14 luglio 2024, XV PER ANNUM B
(Am 7,12-15; Sal 85/84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13)

 

Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele (Am 7,15)

 

Quando il Signore mandò Amos a Betel per profetizzare al suo popolo Israele, il santuario aveva già otto secoli di storia.
La prima pietra, se così si può dire, l’aveva posta Giacobbe che si era fermato in quel luogo (che allora si chiamava Luz) per passarvi la notte.
Con il mantello come coperta e una pietra come guanciale si era addormentato e aveva fatto un sogno.
Una scala poggiava sulla terra e la sua cima raggiungeva il cielo, mentre angeli di Dio salivano e scendevano.
Al risveglio disse: In questo luogo c’era Dio ed io non lo sapevo.
Con la pietra che aveva usato come guanciale eresse una stele, la unse con olio e cambiò il nome del luogo in Betel, Casa di Dio, promettendo che il Signore sarebbe stato il suo Dio e quella pietra la Sua casa (Gen 28,10-22).

 

Otto secoli dopo al posto di quella pietra c’era un santuario importante e frequentato che rappresentava per il Regno del Nord, Israele, quello che il Tempio, a Gerusalemme, rappresentava per Giuda, il Regno del Sud.

 

Ma se Dio mandò il pecoraio di Tekoa a profetizzare per Israele significava che quel luogo magnifico non era più Betel, casa di Dio, ma una casa di malaffare.
L’apparente solida bellezza delle sue pietre serviva solo a mascherare la fragilità di un muro che stava per crollare (Am 7,8), dietro la solennità delle sue liturgie si nascondeva una società marcia, come un cesto di fichi troppo maturi (Am 8,2).
Senza rendersene conto (forse) Amasia, sacerdote di Betel, non chiamava il santuario Casa di Dio ma santuario del re, tempio del regno.
In quel luogo non si serviva il Signore, ma ci si serviva di Lui per ricavarne un profitto distribuendo benedizioni e preghiere (Am 4,4).
Il Signore inviò Amos a Betel prima di mettere in atto il suo castigo, per dare loro un’ultima possibilità di conversione, ma il re Geroboamo II e il suo sacerdote Amasia considerarono l’invito di Dio e il suo inviato con disprezzo.
Amos era solo un povero pecoraio di Giuda.

 

Anche i discepoli di Gesù erano gente semplice, come Amos (Mc 1,16).
Pescatori presi dalla riva del lago, o dalla strada come Matteo il pubblicano (Mc 2,13-14), uomini che scelse secondo il suo volere (Mc 3,13).
Quando il Signore decise di mandarli in missione, non si preoccupò della loro preparazione o della loro competenza.
Dovevano limitarsi a fare quello che aveva fatto lui: annunciare il vangelo di Dio, gridare che il tempo era compiuto e che il regno di Dio si era fatto vicinissimo, chiedere la conversione (Mc 1,14-15), scacciare demoni (Mc 1,25; 5,8) e guarire malati (Mc 1,41; 2,11; 3,5; 5,34.41-42).
Come divisa un paio di sandali, una tunica e il bastone.
Nient’altro.
Gesù non mise fretta, non diede scadenze, né si mostrò interessato a un’azione capillare ed efficiente.
Li invitò a fermarsi nelle case di chi li accoglieva e ad andarsene quand’erano rifiutati, scuotendo la polvere dai piedi, come faceva ogni ebreo che tornava in terra di Israele dopo essere stato in territorio pagano.
Disse loro di andare come il seminatore che sparge il seme con abbondanza, senza preoccuparsi delle spine, dei sassi e della terra arida (Mc 4,3).
Ascoltino o non ascoltino, come il Signore aveva detto a Ezechiele sei secoli prima (Ez 2,55.7).
L’accoglienza della parola e non l’appartenenza a un popolo segnava il nuovo confine tra puro e impuro.

 

Per il regno del Nord il tempo era scaduto.
Amos per due volte aveva implorato Dio di perdonare il suo popolo: Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo (Am 7,1-6).
E due volte il Signore aveva perdonato, poi si pentì di averlo fatto e mandò ad Amos una visione: un filo a piombo e un muro che stava per crollare (Am 7,8).
Questo accade a chi disprezza la Parola di Dio e, invece di servirla, se ne serve per i propri interessi.
Per le sue parole Amos fu cacciato dal regno del Nord, ma ciò che il Signore gli aveva mostrato in visione non tardò a realizzarsi.
Nel 732 l’Assiria invase il regno di Israele e dieci anni dopo cadde Samaria, la capitale.
In ogni luogo numerosi cadaveri. Silenzio (Am 8,3).
Il santuario di Betel seguì la sorte dei suoi sacerdoti e del suo re. Il tetto iniziò a cedere, i muri si gonfiarono fino a scoppiare, arbusti e piante lo invasero. Sul prato, pietre come cadaveri e silenzio. Su una di quelle pietre, otto secoli prima, il patriarca Giacobbe si era addormentato e mentre dormiva, aveva sognato una scala che poggiava sulla terra e la cui cima arrivava fino al cielo.

 

I sogni di Gesù erano diversi dai sogni dei suoi discepoli.
Erano partiti per la missione come lui, con semplicità, ma le loro attese erano grandiose e i loro sogni non prevedevano la delusione, la sconfitta e la morte. Erano certi che Gesù avrebbe conquistato Gerusalemme a colpi di esorcismi, miracoli e parole.
Sogni grandiosi che li rendevano sempre più ciechi e sordi alle parole di Gesù.
Sogni che a Gerusalemme divennero un incubo quando Gesù invece di mettersi in salvo si consegnò per essere arrestato (Mc 14,46), processato (Mc 15,1) e condannato a morte (Mc 15,15).
Lungo la via del Calvario, Gesù crollò sotto il peso della croce, com’era accaduto per il santuario di Betel e il tempio di Gerusalemme.
Agli occhi dei potenti che guardavano Gesù con disprezzo, ma anche dei discepoli che gli avevano voltato le spalle (Mc 14,50), la croce sulla cima del Golgota era il segno della sconfitta.
Ma gli occhi dei semplici e degli umili vedevano altro, videro oltre.
Il Golgota, luogo del cranio, era Betel, casa di Dio e la croce era una scala appoggiata sulla terra la cui cima raggiungeva il cielo.
Il centurione che stava sotto la croce vide angeli e uomini salire e scendere lungo quella scala, in un continuo via vai, senza frontiere, tra la terra e il cielo.
E, vedendo morire Gesù, con altre parole, ripeté ciò che il patriarca Giacobbe aveva detto a Betel quindici secoli prima: In questo luogo c’era Dio ed io non lo sapevo (Mc 15,39).

 


Sentire profeticamente è essere colto dalla Parola non in un organo accessorio, ma nelle parti costitutive dell’essere.
(Andrè Neher).