IL RE DI GERUSALEMME
21 luglio 2024 XVI PER ANNUM B
(Ger 23,1-6; Sal 23/22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34)

 

Egli vide una grande folla ed ebbe compassione di loro
perché erano come pecore che non hanno pastore (Mc 6,34)

 

Il re di Gerusalemme con cui il profeta Geremia ebbe a che fare si chiamava Sedecia (Sidqiyahu), nome che significa: Signore mia giustizia.
Ma Sedecia non garantì la giustizia, né conservò la pace, né si preoccupò di salvare il popolo ascoltando le parole che Dio gli mandava attraverso il profeta.
Fu un piccolo re dal cuore piccolo che pensava solo alla sua giustizia, non a quella di Dio.
E la sua idea di giustizia era il tornaconto e, seconda della convenienza, ordinava di gettare in carcere Geremia o di liberarlo (Ger 38,5.10).
Egocentrico e vile, non si prese cura del gregge che Dio gli aveva affidato.
Cercò di salvare la sua vita, ma finì per perderla, come dice Gesù (Mc 8,35), e con lui si spense anche la dinastia Davidica.

 

Ma il Signore non viene meno alle sue promesse, nonostante l’ottusa infedeltà degli uomini.
Dal tronco secco di Iesse avrebbe fatto nascere un germoglio giusto (Is 11,1), il cui nome sarà Signore nostra giustizia.
O Emmanuele, Dio con noi, perché essere con noi è la sua idea di giustizia.
Il Dio biblico non è giusto perché imparziale ma, al contrario, perché è di parte e prova per noi che siamo il suo gregge un’infinita, viscerale compassione.

 

Sei secoli dopo la fine della dinastia davidica, il Signore innestò nel tronco secco di Iesse un germoglio.
Il tronco secco era un uomo giusto di nome Giuseppe (Mt 1,19) che abitava a Nazareth, nome, tra l’altro, che significa germoglio (netzer).
Era un semplice carpentiere con uno spiccato senso della giustizia che un angelo del Signore, in sogno, gli chiese (ordinò) di lasciar perdere.
Non temere – gli disse l’angelo in sogno – di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo.
Il bambino ha due nomi che rivelano la sua missione nel mondo e il volto di Dio.
Gesù, che significa Dio è salvezza, perché salverà il suo popolo dai suoi peccati.
Emmanuele, che significa Dio con noi, perché non c’è salvezza se il Signore non è con noi, se non sta dalla nostra parte (Mt 1,18-23).

 

Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore (Mt 1,24) e così continuò a fare (Mt 2,13.19) adeguandosi alla paradossale giustizia di Dio e non alla sua idea di giustizia, né al suo personale tornaconto, come aveva fatto il suo lontano antenato Sedecia.

 

Un’antica tradizione rabbinica sostiene che anche Dio prega.
Ma che genere di preghiera può mai fare il Santo Benedetto?
Rav Arika, un celebre maestro morto nel 247, sostiene che questa è la preghiera di Dio: Possa essere Mia volontà che la Mia misericordia sopprima la Mia ira, che la Mia misericordia possa prevalere su ogni altro mio attributo, così che io possa trattare i Miei figli con l’attributo della misericordia e per il loro bene possa porre limiti brevi alla Mia rigorosa giustizia (Abraham J. Heschel).
Forse anche Gesù pregava così quando si ritirava in luoghi deserti per stare alla presenza del Padre suo (Mc 1,35).

 

E forse insegnò questa preghiera anche ai suoi amici quando li portò, soli con lui, in un luogo deserto per riposarsi un po’.

 

Non sappiamo quanto gli apostoli rimasero soli con Gesù, in disparte, prima che la folla li trovasse.
Ma non è la quantità del tempo che rende riposante un ritiro, ma la sua qualità.

 

Il Discepolo Amato rimase pochi istanti con il capo appoggiato nel petto del Signore, il tempo di porgli una domanda e di attendere una risposta (Gv 13,25).
Eppure in quel breve spazio di tempo sentì l’infinita compassione che Gesù provava non solo per lui, il Discepolo Amato, ma anche per quel misero gruppo di discepoli che si era scelti e che, poco dopo l’avrebbero abbandonato (Mc 14,50), tradito (Gv 13,30) e rinnegato (Gv 18,17.25-27).

 

Quando vide la grande folla che attendeva di essere nutrita dalla sua parola, Gesù non dimenticò gli apostoli e il loro meritato riposo, ma diede loro una lezione importante.
Un giorno avrebbe affidato a loro il suo gregge e di quel gregge avrebbero dovuto prendersi cura con la sua stessa passione, con la sua stessa compassione.
Sono come pecore senza pastore, che vanno perdonate, perché spesso non sanno quello che fanno (Lc 23,34).

 

Gesù era circondato da una folla, ma il suo rapporto con loro era personale (Mc 5,31).
Egli conosce ciascuno per nome (Gv 10,14).
Egli, il Dio con noi, il Signore nostra giustizia, realizza ciò che il profeta Geremia aveva annunciato sei secoli prima quando il re Sedecia pensava solo ai suoi interessi e i profeti commettevano cose nefande (Ger 23,14).
In questo luogo desolato, senza uomini né bestiame, e in tutte le sue città, vi saranno ancora dei pascoli dove i pastori faranno riposare le greggi e passeranno ancora le pecore sotto la mano di chi le conta (Ger 33,12-13).

 

Non molto tempo dopo (un anno, forse due) la folla che Gesù aveva nutrito e istruito con la parola e la compassione, pretese da Pilato che fosse crocifisso (Mc 15,11-15).

 

Il Signore avrebbe potuto far scendere un fuoco dal cielo per consumarli (Lc 9,54).

 

Ma il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14) per salvare il gregge che il Padre gli aveva affidato, per farlo riposare su pascoli erbosi e condurlo ad acque tranquille (Sl 23,2).
Il Padre abbandonò il Figlio (Mc 15,34) come il contadino abbandona il seme nella terra perché muoia e porti frutto (Gv 12,24).
E non fermò la mano del soldato che con un colpo di lancia, un colpo di grazia, aprì il fianco di Gesù (Gv 19,34) perché tutti potessimo vedere in quel cuore trafitto l’infinita misericordia di Dio per noi che siamo il gregge che Egli conduce.     

 


Fratello, ti raccomando questo: Che in te il peso della compassione faccia pendere la bilancia fino a che tu senta nel tuo cuore la stessa compassione di Dio.
(Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, 34)