IL PROFETA ELISEO
28 luglio 2024 XVII PER ANNUM B
(2 Re 4,42-44; Sal 145/144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15)

 

Ma che cos’è questo per tanta gente? (Gv 6,9)

 

Il profeta Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, fu l’erede spirituale di Elia.
Il Signore lo scelse, come spesso accade nei racconti di vocazione, prendendolo dai campi, mente li arava con dodici paia di buoi (1Re 19,19-21).
Era un contadino, permaloso e talmente privo di senso dell’umorismo che fece divorare da due orse i monelli di un villaggio che lo prendevano in giro per la sua calvizie (2 Re 2,23).
Non possedeva né la forza, né l’autorevolezza di Elia, ma era sensibile e attento ai piccoli contrattempi della vita quotidiana.
Riempì d’olio i vasi vuoti di una vedova perché potesse pagare i suoi debiti e tenersi i figli (2 Re 4,1); a Galgala risanò una zuppa avvelenata (2 Re 4,38); fece venire a galla un’ascia caduta nel Giordano perché fosse recuperata (2 Re 6,5).
E, con venti pani d’orzo e farina, diede da mangiare a cento persone.
Anche Elia aveva compiuto miracoli, ma nel suo caso servivano a sottolineare il fatto che il Dio di Israele è l’unico Signore, come diceva il suo stesso nome.
Invece i miracoli di Eliseo raccontano una storia di provvidenza, sono un segno per dire, com’è scritto nel salmo, che il Signore provvede il cibo in tempo opportuno, che apre la sua mano e sazia il desiderio di ogni vivente (Sl 145,15-16).

 

Il Signore è il Dio provvidente che salva, come dice il nome Eliseo.
Che è lo stesso significato del nome di Gesù.

 

Ma per salvare la mano dell’Onnipotente ha bisogno della nostra mano.

 

La mano di Gesù sarebbe stata vuota se non ci fosse stato un ragazzo con cinque pani d’orzo e due pesci.
Come Elia aveva fatto scendere il fuoco dal cielo sul monte Carmelo (1Re 18,38), così Gesù avrebbe potuto far scendere il pane dal cielo per sfamare tutta quella folla.
Un miracolo spettacolare che avrebbe fatto ricordare ciò che accadeva quotidianamente nel deserto milleduecento anni prima.
Ma Gesù è venuto per indicare la via della salvezza, non per lo spettacolo.
I cinque pani e i due pesci
di un ragazzo dovevano essere un segno, come lo era stato il vino alle nozze di Cana, all’inizio dei segni (Gv 2,1-11).

 

E, come nel racconto di Cana, così anche in quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci l’evangelo non si ferma a descrivere il modo in cui avvenne il prodigio, ma si concentra su ciò che precede e ciò che segue.
A Cana il miracolo è preceduto dal dialogo tra la madre, Gesù e i servi.
Sul monte in Galilea dal dialogo tra Gesù, Filippo e Andrea.
A Cana il dialogo riguarda il vino che è venuto a mancare.
Sul monte in Galilea è il pane che manca.
La salvezza di Dio passa dalle mani di Gesù, mani che sarebbero state vuote se non le avesse riempite un ragazzino con il poco che aveva a disposizione.

 

Come le mani di Eliseo se l’uomo venuto da Baal-Salisà non gli avesse consegnato venti pani d’orzo e grano.
Erano giorni di siccità e carestia (2 Re 4,38) ed Eliseo non tenne quel pane per sé, né lo volle per le liturgie, ma lo distribuì a chi aveva bisogno, moltiplicandolo.
Eliseo, con i due terzi dello spirito ricevuto in eredità da Elia, si prendeva cura della parte debole del popolo per affermare che il Dio di Israele è il Dio dei poveri e degli umili e mostrava che i miracoli più veri, più duraturi, sono quelli che si operano condividendo i doni che Dio mette a disposizione degli uomini.
Miracoli che non scendono dal cielo, ma salgono dalla terra.
Dal nulla non viene nulla ma, per chi crede, dal poco può venire tutto.
Eliseo diede tutto quello che aveva ricevuto e cento persone ricevettero più di quello che desideravano e tutti mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

 

Le obiezioni di Filippo e Andrea erano piene di buon senso.
Il primo faceva i conti con l’economia, l’altro con la realtà.
Nessuno dei due con la logica del regno che non è di questo mondo (Gv 18,36).
Gesù li mise alla prova, come Dio aveva messo alla prova il suo popolo nel deserto con il dono della manna (Es 16,4).
Se i miracoli non diventano segni che indicano qualcosa che sta oltre, rischiano di far chiudere gli occhi invece che aprire il cuore.
Ed è quello che accadde subito dopo, quando la folla, visto il segno che egli aveva compiuto, venne a prenderlo per farlo re.
La gente vide il segno ma lo fraintese.
Volevano un re che continuasse a fare spettacolo con i suoi miracoli.

 

Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Il segno del pane indicava già un’altra Pasqua.
E il monte dove avvenne il segno indicava la cima di un altro piccolo monte appena fuori Gerusalemme.
Sul Golgota, due anni dopo, Gesù mostrò tutta la sua potenza nel momento della massima debolezza.
Come il ragazzino che aveva offerto solo cinque pani e due pesci, così Gesù, spogliato delle sue vesti (Gv 19,23-24), e non aveva nient’altro da offrire che il suo corpo.

 

Ma che cos’è questo per tanta gente?
Questo, per tanta gente non è molto, è tutto.
Per chi, come la madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala e il Discepolo Amato, ha il coraggio di stare presso la croce e volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto (Gv 19,25.37).

 

Per tanta gente la croce non è uno strumento di tortura, ma il trono della Gloria di Dio ed è un segno che indica nell’uomo che vi è crocifisso il Re dell’universo (Gv 19,25-27), come confermò, tra l’altro, lo stesso Pilato quando fece appendere un cartello sopra il capo di Gesù, con il motivo della condanna: Gesù, il Nazareno, il re dei Giudei (Gv 19,19).

 


In un tempo di carestia, rabbì Mendel vide che i poveri che erano ospiti in casa sua ricevevano pani più piccoli del solito. Egli allora diede ordine che si facessero pani più grandi di prima. I pani – disse – devono adeguarsi alla fame, non al prezzo.
(Racconti dei Chassidim)