A CAFARNAO C’ERA UNA FOLLA
4 agosto 2024, XVIII PER ANNUM B
(Es 16,2-4.12-15; Sal 78/77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35)

 

Questa è l’opera di Dio: credere in Colui che egli ha mandato (Gv 6,29)

 

A Cafarnao c’era una folla disposta a tutto pur di trovare Colui che li aveva saziati gratis, ma in questa ricerca c’era qualcosa di malato che Gesù prima di condannare cercò di guarire.

 

Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di questi pani e vi siete saziati.

 

Qualcosa di simile era accaduto a Sicar, presso il pozzo di Giacobbe, dove Gesù incontrò una donna samaritana. Ogni giorno lei vi si recava per riempire d’acqua la sua brocca e non si rendeva conto che il pozzo del suo cuore era una cisterna screpolata, come aveva scritto il profeta Geremia a proposito del suo popolo (Ger 2,13).
La donna aveva una profonda sete d’amore, ma si ostinava a cercarla in uomini che non potevano soddisfarla (Gv 4,1-30).
Gesù non puntò il dito contro la sua vita moralmente discutibile, ma le offrì una sorgente di acqua viva che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14).

 

Il mio cibo – disse Gesù ai discepoli ritornati dal villaggio – è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34). E la volontà di Colui che mi ha mandato – disse Gesù alla folla che l’aveva ritrovato a Cafarnao – è che non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,39).

 

Per questo, perché nulla andasse perduto, dopo essersi nascosto, si lasciò ritrovare dalla folla che lo cercava per farlo re (Gv 6,15).
Di fronte a uomini e donne che egli vedeva smarriti, come un gregge che non ha pastore (Mc 6,34), come discepoli senza un maestro, Gesù cominciò una lezione – se così si può dire – sulla pedagogia del segno, cercando di purificare il loro desiderio malato per indirizzarlo verso Dio.
Con una pazienza infinita, come aveva fatto con la donna di Samaria, li invitò ad alzare gli occhi dal pane che perisce, frutto della terra e del lavoro umano, al pane che scende dal cielo, cibo che non perisce e dura per la vita eterna.

 

Alla parola di Gesù che smascherava un desiderio sbagliato, la folla rispose con una domanda: Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? (Gv 6,28).
La domanda è legittima ma nasconde una pericolosa ambiguità, perché il verbo fare rischia di ridurre la fede a un’opera umana, come se l’uomo potesse disporre di Dio, piegarlo ai propri bisogni e accampare meriti davanti a Lui.
Dietro il verbo fare c’è l’ombra dell’idolatria.

 

Gesù non si sottrasse all’incontro con la folla, né alle domande ambigue che gli venivano poste per cercare di purificare il cuore dall’idolatria.
Non lasciò cadere la domanda, ma la indirizzò altrove.
C’è un’opera da compiere, ma quest’opera non ha nulla a che vedere con il darsi da fare. Questa è l’opera di Dio: che crediate in Colui che egli ha mandato (Gv 6,29).
Non fare qualcosa, ma credere in qualcuno è l’opera di Dio.
La ricerca vera che ci fa approdare all’altra riva, che ci fa avvicinare al mistero di Dio con timore e tremore (Fil 2,12) è un atto di fede.
E la fede, come la manna, va rinnovata ogni giorno, perché se la conserviamo per il giorno seguente, se la congeliamo, imputridisce (Es 16,19-20).

 

Signore dacci sempre questo pane!
Per un istante la folla che cercava Gesù intuì la verità.
Come la donna samaritana al pozzo quando chiese a Gesù di darle sempre quest’acqua, per non avere più sete (Gv 4,15).

 

C’è in questo grido un’urgenza sincera, un desiderio profondo di vedere oltre il segno del pane che avevano mangiato e che li aveva saziati, oltre l’acqua del pozzo per incontrare colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo, l’unico che può donare quest’acqua e questo pane.

 

Per quanto ne sappiamo la donna di Samaria, dopo essersi lasciata alle spalle la brocca e una vita che faceva acqua da tutte le parti, divenne discepola di Gesù, il Cristo che aveva placato l’arsura del suo cuore (Gv 4,28-30).

 

A Cafarnao Gesù non fece nulla per conquistare la simpatia della folla che l’aveva cercato e ritrovato. Continuò a parlare con loro, accettando la fatica di un dialogo complicato, ma senza mai venire meno alla verità.
Verità che mise ciascuno di loro (e di noi) di fronte alla necessità/urgenza di scegliere tra due verbi: fare o credere.

 

Anche Pilato durante il processo a Gesù si trovò di fronte allo stesso dilemma.
Forse, quando gli chiese: Che cos’è la verità? aveva intuito qualcosa di quel re e del suo regno che non è di questo mondo.
Ma non ebbe la forza, la voglia o il coraggio di ascoltare quella voce e di lasciarsi alle spalle la sicurezza del pane che ogni giorno arrivava sulla sua tavola (Gv 18,37-38).

 

Eppure alla fine Pilato riconobbe in Gesù il re e lo confermò con un cartello che fece appendere sulla croce: Gesù, il Nazareno il re dei Giudei.
Iscrizione che rimase, nonostante le proteste dei capi dei sacerdoti (Gv 19,19-22).

 

La via che porta alla vita sale su un monte destinato alla morte.
La ricerca di Dio passa attraverso il crocevia del Golgota, ma non si ferma là.
La croce è un segnale, una freccia puntata verso l’alto, verso l’altrove.
È un segno che esige il coraggio di volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto (Gv 19,37) per non avere più fame, né sete, mai.

 


Come dobbiamo amare Dio?
Amando gli uomini.
Come dobbiamo amare gli uomini?
Lottando per portarli sulla retta via.
Qual è la retta via?
L’ascesa.
(Nikos Kazantzakis, La sublime ascesa)