ELIA, IL PROFETA DI FUOCO
11 agosto 2024, XIX PER ANNUM B
(1 Re 19,4-8; Sal 34/33; Ef 4,30 – 5,2; Gv 6,41-51)

Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino (1Re 19,7)

 

Elia, il profeta di fuoco, con la forza di un pane e di una parola smise di mormorare contro se stesso e si rimise in cammino verso il monte di Dio, l’Oreb.

 

Quattrocento anni prima, invece, in quello stesso deserto c’era un popolo che non smetteva di mormorare contro Dio e contro il suo servo Mosè per la mancanza d’acqua e di cibo (Es 15,24; 16,2-4; 17,3-6).
Anche quando Dio provvedeva all’acqua e al pane, i figli di Israele continuavano a mormorare contro Dio e contro Mosè perché l’acqua non era buona come quella del Nilo e il cibo che pioveva dal cielo non aveva gli stessi sapori né la stessa varietà di quello che saliva dalla terra d’Egitto.

 

Milleduecento anni dopo i discendenti di quel popolo che aveva attraversato il deserto mormorando, si misero a mormorare contro Gesù.
Non per il pane che li aveva saziati e che avrebbero voluto sulla loro tavola tutti i giorni, ma per le parole che aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo.
Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci erano disposti a credere di avere davanti il messia e non avevano esitato a rincorrerlo per farlo re (Gv 6,15).
Ma senza miracoli Gesù non è più nessuno.
È solo il figlio di Giuseppe e di una giovane donna di Nazareth.
È solo un uomo che viene dal basso, come tutti loro.

 

Sono uno come tutti gli altri – diceva Elia sotto la ginestra – non sono migliore dei miei padri.
Dopo aver raggiunto l’apice della sua carriera di profeta, Elia desideroso di morire (perché non era migliore dei suoi padri, appunto), supplicò il Signore di prendere la sua vita ma il Signore invece di esaudire la sua preghiera gli mandò un angelo con una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua.
Non una ma due volte.
E, conoscendo Dio (per quanto ci sia dato di conoscerlo), il Santo Benedetto si sarebbe ostinato a mandare il suo angelo fino a che non fosse riuscito a rimettere in piedi Elia e a farlo ri-partire verso il monte di Dio, l’Oreb.
Sono gli idoli (e gli umani) tutti d’un pezzo che non danno una seconda opportunità.
Il Dio biblico è il Dio dell’ancora una volta, il Signore che offre sempre la possibilità di ripartire a chi s’è fermato perché non si sente migliore di chi l’ha preceduto.

 

Se fosse stato per noi, la folla che mormorava contro Gesù non meritava una seconda possibilità.
Invece, dopo essersi nascosto (Gv 6,15), Gesù si lasciò ritrovare e continuò a moltiplicare il pane della parola e a offrire se stesso come pane della vita (Gv 6,48.51).
E non smise di ripeterlo davanti a quella folla sicura di sé, che si sentiva arrivata perché anche per loro era ancora lungo il cammino prima di incontrare il Dio che nessuno ha mai visto.

 

Forse, come Elia sotto la ginestra, desideroso di morire, bisogna toccare il fondo, sentire il peso del fallimento, prendere coscienza che non siamo migliori dei nostri padri affinché la parola di Dio entri dall’orecchio e scenda fino al cuore, perché il pane che dà la vita diventi carne della nostra carne.
Gesù non voltò le spalle alla folla che mormorava perché vedeva la loro fame e la loro sete e consegnò se stesso con la speranza di essere accolto.

 

Ma per accogliere bisogna smettere di mormorare.
È la mormorazione che ci presumere di sapere (Gv 3,2).

 

L’esperienza dolorosa del peccato è il punto di partenza per ri-prendere il cammino verso il monte di Dio. La caduta è inevitabile e fa parte del cammino spirituale, ma è necessario evitare di concentrarsi eccessivamente su di essa, per focalizzarsi invece sulla possibilità di risalita e sull’aiuto di Dio in tale senso. In questa prospettiva, ogni fine è un nuovo inizio (reshit), una nuova vita possibile che si apre al mondo (Haim F. Cipriani).

 

Per avere sperimentato il deserto del fallimento, Elia riuscì ad attraversare il deserto del Sinai, camminando quaranta giorni e quaranta notti con la forza di un pane e di una parola, fino a raggiungere il monte di Dio, l’Oreb, dove incontrò un Dio che non conosceva (1Re 19,12-13).
Prima era lui che parlava di Dio al popolo, ora era Dio che parlava con lui nel silenzio.

 

Ai Giudei che mormoravano Gesù offrì il pane e la parola.
Non si era fatto carne (Gv 1,14) per condannare il mondo ma per nutrirlo con la sua presenza e salvarlo.
La volontà di Dio – disse alla folla che mormorava – è che io non perda nulla di quanto il Padre mi ha dato (Gv 6,39).

 

Ma per ripartire, per riprendere il cammino è necessario sostituire la mormorazione con l’accettazione, e la presunzione di sapere con la grazia di una santa ignoranza.
Noi non sappiamo nulla se Dio non ci istruisce, non siamo in grado di compiere alcun passo verso Dio se Egli non ci attira a sé.

 

Tra i Dodici solo uno si lasciò attrarre dall’amore di Gesù, ne comprese la parola e si nutrì di lui.
Un discepolo che entra in scena solo alla fine del Quarto Evangelo.

 

La sera della cena il Discepolo Amato si trovava a tavola al fianco di Gesù. Appoggiò il capo sul petto del Signore e gli chiese chi fosse il traditore (Gv 13,23-25).

 

Dopo la cena, mentre Giuda tradiva Gesù (Gv 18,3), Simon Pietro lo rinnegava (Gv 18,16-18.25-27) e tutti gli altri lo abbandonavano (Mc 14,50), il Discepolo Amato entrò nel cortile del sommo sacerdote (Gv 18,16) e rimase accanto al suo Signore (vicino o lontano che fosse) durante il processo.

 

E, nutrito dall’amore ricevuto da Gesù, pane della vita, come il profeta Elia, il Discepolo Amato attraversò il deserto e giunse fino al monte di Dio, il Golgota, dove nel buio di quel luogo vide risplendere la Gloria dell’Altissimo e, nel silenzio della morte, ne percepì la voce (Gv 19,26).

 


Regolarmente la tentazione sormonta l’anima e, regolarmente, la grazia innata sorge nuovamente dalle sue profondità e promette ciò che è assolutamente incredibile: è possibile ri-diventare intero e uno, è possibile incontrare il Dio-Uno.
(Martin Buber)