AL RE SALOMONE
18 agosto 2024, XX PER ANNUM B
(Prv 9,1-6; Sal 34/33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58)

 

Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (Prv 9,5)

 

Al re Salomone sono attribuiti tre libri biblici.
Il Libro dei Proverbi che mostra il volto sicuro e pacifico della sapienza tradizionale, strada maestra per la quale Israele va incontro al suo Dio.
Qohelet che svela il volto tragico e disperato della sapienza tradizionale.
E il Cantico di Cantici che celebra il mistero dell’amore di Dio dietro il velo dell’amore umano.
Secondo la tradizione Salomone scrisse il libro dei Proverbi nell’età adulta, tra il tempo delle illusioni giovanili e quello disilluso della vecchiaia, un periodo di equilibrio e di serena fiducia.
Il re aveva costruito una casa al Signore pur sapendo che neppure i cieli dei cieli possono contenerlo (1 Re 8,27), che il mondo intero è la sua casa e che tutto ciò che esiste parla di lui. La sua parola si contrappone alle voci delle divinità pagane che offrono una sapienza sterile. La parola di Dio indica la via della vita, mentre chi ascolta le parole degli idoli batte strade senza sbocchi che portano alla morte (Dt 30,15-18).
Solo Dio offre una casa accogliente dove abitare, imbandisce banchetti con cibi gustosi e nutrienti e mesce vini che dissetano e rallegrano senza stordire (Is 25,6).

 

Chi ascoltava Gesù percepiva l’eco delle parole dei sapienti di Israele e dei suoi profeti, ma anche di una sapienza che andava oltre.
Un miracolo spettacolare come la moltiplicazione di cinque pani d’orzo e due pesci, è una cosa semplice per chi non si fa troppe domande. C’è un bisogno e Gesù lo soddisfa.
Chi è privo di senno (per usare il linguaggio del libro dei Proverbi) si accontenta di riempire la pancia di pane più che la vita di un senso.
A Cafarnao da una parte la folla si smarrì tra le vie ambigue del miracolo, dall’altra i Giudei con la loro sapienza si persero in sterili discussioni (1Cor 1,18-25).
Gesù non era un mago, né un maestro.
Era il Figlio di Dio che offriva se stesso, parola che si fa carne (Gv 1,14), cibo che nutre per la vita eterna.

 

A Sicar, presso il pozzo di Giacobbe una donna aveva chiesto a Gesù come potesse attingere acqua da un pozzo profondo senza un secchio (Gv 4,11).
Poi lo aveva ascoltato, aveva seguito il filo di parole antiche e nuove, oscure come le profondità del pozzo e limpide come l’acqua che ne sgorgava.
Le parole di Gesù iniziarono a dissetarla, anche se non le comprendeva.

 

Un giorno Gesù avrebbe mostrato come potesse dare la sua carne da mangiare e il suo sangue da bere. Un giorno tutto sarebbe stato talmente evidente da apparire oscuro e incomprensibile ai sapienti di questo mondo.
Sapienti che sono stolti perché hanno la presunzione di avere compreso tutto, che spalancano le loro labbra, come dice il libro dei Proverbi (Prv 13,3), senza sapere nulla.

 

Invece per gli umili della terra e i piccoli la parola dura di Gesù (Gv 6,60) nutre e disseta, un cibo dolce come il miele, che riempie il cuore di letizia (Ez 3,3; Ger 15,16).
La parola di Dio è una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14) e sgorga in ogni angolo della terra e non può essere chiusa dentro i confini di una terra o di una chiesa.

 

Gesù non è venuto per abolire la sapienza tradizionale ma per portarla a compimento (Mt 5,17). Come Abramo, egli è l’ebreo, ha-‘ivrì (Gen 14,13), termine che significa andare oltre. Perché – insegnano i maestri – mentre tutto il mondo andava da una parte, lui andava dall’altra.

 

Se Gesù fosse stato un uomo di buon senso, avrebbe continuato a fare miracoli e a parlare con parole seducenti di una spiritualità del benessere.
Invece sospese i miracoli per parlare di vita e di morte, di carne da mangiare e sangue da bere, di fede e risurrezione.
Il miracolo rassicura e la sapienza della tradizione conforta, ma la parola di Gesù è una spada che divide (Mt 10,34).
Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele, e come segno di contraddizione aveva profetizzato nel tempio il vecchio Simeone (Lc 2,34).

 

Gesù non portò a compimento la sapienza dei padri dentro un’aula scolastica, ma sulla cima del Golgota, dove donò la vita eterna attraversando il territorio oscuro della morte.

 

Moltiplica ancora il pane e ti faremo salire sul trono – gli ripetevano i giudei a Cafarnao.
Scendi dalla croce e ti crederemo – gli gridavano sul Golgota (Mc 15,32).

 

Ma questa è la sapienza dei regni di questo mondo e del loro principe che cercò sino alla fine di intralciare il cammino di Gesù verso il compimento della sua ora.

 

Nel Quarto Evangelo Gesù non muore gridando: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato (Mt 27,46; Mc 15,34), ma, con il suo ultimo respiro, consegnò lo spirito dicendo: Tutto è compiuto (Gv 19,30).

 

Tutto si compie sulla croce quando Gesù soffia il suo alito di vita per rendere vivente ogni essere umano (Gen 2,7).

 

Il Discepolo Amato che rimase accanto a Gesù e si lasciò amare da lui fino alla fine (Gv 13,1), vide questo compimento e credette (Gv 20,8).

 

E come lui la madre di Gesù (Gv 19,25).

 

La donna che aveva nutrito sul suo seno il Figlio di Dio, da quel momento, vigilia della festa di Pasqua, iniziò a nutrirsi di Lui, Parola che si fa carne.

 


Di tutti questi processi educativi, il più difficile e apparentemente senza speranza è l’educazione degli istruiti. Essi resistono all’educazione più di chiunque altro; e ne hanno bisogno più di chiunque altro.
(Gilbert Keith Chesterton)