MOSÈ FECE UN ULTIMO TENTATIVO
1° settembre 2024, XXII PER ANNUM B
(Dt 4,1-2.6-8; Sal 15/14; Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23)

 

Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (Mc 7,15)

 

Mosè fece un ultimo tentativo per convincere Dio a lasciarlo entrare nella terra promessa, ma il Signore lo liquidò dicendogli che sulla questione non voleva più sentire una parola. Giosuè avrebbe guidato il suo popolo nella terra di Canaan, mentre lui l’avrebbe contemplata dalla vetta del Pisga (Dt 3,26-28).

 

Israele era accampato nella valle di fronte a Bet-Peor, nelle steppe di Moab.
Alle spalle quarant’anni di cammino nel deserto.
Di fronte il cammino in un paese dove scorre latte e miele (Es 3,8).

 

Mosè parlava al popolo con il cuore ferito di un padre che vedeva partire il suo unico figlio con la passione di chi doveva affrontare l’ultimo esodo.
Se Dio non voleva che entrasse nella terra promessa forse c’era qualcos’altro oltre a quella che gli sembrava una punizione.
Forse qualcosa che aveva a che fare con l’amore.
In fondo anche la storia del suo popolo, adesso che la vedeva dall’alto e dalla fine, non era che una grande storia d’amore, solida e fedele come la Legge incisa nella pietra che Dio aveva consegnato sul Sinai.
La legge del faraone garantiva il cibo in cambio della libertà.
La legge di Dio donava il cibo in vista della libertà.

 

I farisei conoscevano la legge e la amavano con tenerezza e passione.
Un detto dei rabbini, paradossale come molte parole della tradizione, affermava che bisognava amare la Torah – la Legge – più di Dio che l’aveva data.
I farisei venivano dal popolo, si mantenevano e mantenevano la loro famiglia lavorando e si dedicavano a insegnare perché – dicevano – l’ignoranza è la più penosa delle povertà.  S’impegnavano a dare alla vita il senso della Legge e alla Legge il senso della vita.

 

Gesù era più vicino alla loro sensibilità che a quella dei Sadducei, il partito sacerdotale.
La violenza delle sue parole nei loro confronti testimonia un eccesso d’amore.
Il loro zelo eccessivo rischiava di avvelenarne la fede, la loro severa fedeltà alla Legge rischiava di spegnere la loro sete di Dio.
Anche i rabbini erano consapevoli di questo pericolo e insegnavano che costruire siepi troppo alte per custodire la Legge finisce per soffocarla, che aggiungere troppa acqua al vino lo faceva scomparire.

 

La Legge è la sapienza di Israele, il dono che il popolo portava con sé nella terra di Canaan. Le Dieci Parole incise nelle due tavole di pietra erano conservate dentro l’Arca dell’Alleanza e un giorno sarebbero state custodite nel luogo più sacro di Israele, il Santo dei Santi.
Ma il segno era per la vita, non per la venerazione.
Le Dieci Parole erano state incise nella pietra dal dito di Dio e – insegnano i maestri – il verbo incidere ha la stessa radice della parola libertà.
Obbedire (ob-audire) alla Legge è anzitutto un atto di ascolto che rende liberi.
E la fedeltà alla Legge è garanzia di libertà.
Perché Dio non è un padrone, ma un alleato, e la sua Legge è la strada che conduce alla vita e alla libertà, un ponte che colma la distanza tra Dio e l’uomo.

 

Come Mosè anche Dio rimase di là del Giordano.
La libertà richiede distanza.
Niente più manna, niente più aiuti dal cielo.
Israele aveva la Legge, aveva tutto quello che gli serviva per vivere.

 

Mentre saliva la cima del Nebo, Mosè si chiese ancora una volta se quella fosse una punizione o una ricompensa.
Aveva vissuto gran parte della sua vita da nomade nel deserto.
Forse non avrebbe sopportato una vita da sedentario.
Prima di morire sentì una profonda intimità con il Dio dei suoi padri.
Morì sulla bocca di Dio, come dice alla lettera il testo del Deuteronomio (Dt 34,5), come se con un bacio il Santo, Benedetto Egli sia, gli avesse consegnato tutte le Sue Parole.
Quelle che aveva inciso sulle tavole di pietra e tutte quelle che non sarebbero mai state scritte perché il cuore dell’uomo non può contenere ogni cosa che esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3; Mt 4,4).

 

Gesù desiderava che scribi e farisei comprendessero la differenza tra ciò che esce dalla bocca di Dio e ciò che esce dalla bocca dell’uomo, tra ciò che è essenziale e ciò che è relativo.
Le battaglie più decisive si combattono nel cuore umano e con ciò che esce dal cuore si può far vivere o morire, liberare o rendere schiavi.

 

Gli scribi e i farisei tornarono a Gerusalemme con l’animo inquieto di chi non aveva percepito l’amore che stava dentro le parole dure di Gesù.
Farisei e Sadducei si trovarono stranamente d’accordo nella questione riguardante lo strano rabbi di Nazareth, unanimi nella decisione di crocifiggerlo (Mc 11,18).

 

Sulla cima del Golgota, dove la legge degli uomini condannò un innocente, Dio consegnò agli uomini la sua Legge.
Una Legge nuova e antica, incisa non più nella pietra ma nel cuore di Gesù.
L’intimità con quel cuore (Gv 13,25) avrebbe guarito chi ha il cuore spezzato (Sl 147,3).  

 

Non sappiamo se Giuseppe d’Arimatea si sia opposto al Sinedrio, il tribunale che condannò Gesù alla crocifissione, ma sappiamo che con coraggio andò da Pilato per chiederne il corpo (Mc 15,43).

 

Dopo averlo deposto dalla croce e prima di avvolgerlo nel sudario, Giuseppe d’Arimatea strinse forte a sé il corpo senza vita di Gesù per fargli sentire quanto lo amava.
Era un membro autorevole del Sinedrio, conosceva la Legge e sapeva che, toccando un cadavere, si sarebbe reso impuro.

 

Ma questo non importava più nulla per lui perché, ora ne era certo, non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro.

 


Cristo sapeva che adempiere la legge avrebbe provocato un fragore più sbalorditivo che se l’avesse distrutta.
(Gilbert Keith Chesterton)