NEL CAPITOLO VENTITRE DEL SUO LIBRO
8 settembre 2024, XXIII PER ANNUM B
(Is 35,4-7a; Sal 146/145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37)

 

Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi
e con la saliva gli toccò la lingua (Is 35,7a)

 

Nel capitolo ventitré del suo libro, il profeta Isaia pronuncia un oracolo contro le città fenicie di Tiro e Sidone. Città orgogliose della loro ricchezza, i cui prìncipi erano mercanti e le persone più nobili trafficanti (Is 23,8).
Per questa loro arroganza sarebbero diventate come una prostituta che ha perduto l’antico fascino, costretta a girare per la città con la cetra, suonando con abilità e moltiplicando i canti nella vana speranza che qualcuno la desiderasse ancora (Is 23,16).

 

Ma, dopo settant’anni, il Signore avrebbe concesso anche a Tiro e Sidone la salvezza.

 

Settanta è il tempo della pienezza e del compimento.
In quei giorni Tiro e Sidone avrebbero ritrovato lo splendore di un tempo.
La ritrovata ricchezza sarebbe stata consacrata al Signore e non più ammassata e custodita da pochi e tutti, abitando presso il Signore, si sarebbero nutriti con abbondanza e vestiti con decoro (Is 23,17-18).
Il principe dei profeti aveva visioni che varcavano i confini della terra di Israele, parole di salvezza per tutti i popoli.

 

Con un percorso geograficamente difficile da ricostruire Gesù attraversò le città pagane di Tiro e Sidone.
Un itinerario inverosimile che rivelava un’intenzione precisa.

 

Nel suo evangelo Marco colloca l’incontro con il sordomuto, nel territorio della Decapoli, tra le due moltiplicazioni dei pani.
Nella prima erano state raccolte dodici ceste di pezzi avanzati (Mc 6,43), dodici come le tribù di Israele.
Nella seconda moltiplicazione le ceste avanzate furono sette (Mc 8,8), numero che rimanda alle settanta nazioni della terra.
Così Gesù, dopo avere sfamato il suo popolo, si preoccupò di sfamare anche chi viveva fuori dei confini della terra di Israele.
La salvezza non era più condizionata dall’appartenenza a un popolo eletto.

 

Nell’incontro con una donna straniera della regione di Tiro Gesù ebbe la conferma che questa era la volontà del Padre.
Lei l’aveva pregato di liberare sua figlia da uno spirito impuro.
Non chiedeva di togliere il pane ai figli, si accontentava delle briciole che cadono dalla tavola e che il padrone lascia ai cani (Mc 7,24).
È l’unica persona, una donna, tra l’altro, che riuscì a chiudere la bocca al rabbi di Nazareth.
Con le sue parole ottenne la guarigione della figlia e aprì il cuore e gli occhi a Gesù.
In lui il regno di Dio si faceva vicino a tutti gli uomini (Mc 1,15).

 

Per questo quando gli portarono un uomo sordo e che parlava con molta difficoltà non esitò a guarirlo.

 

L’espressione greca parlare con difficoltà si trova una sola volta nell’Antico Testamento.
Ed è’ nel capitolo trentacinque del libro del profeta Isaia.
Un testo pieno di vitalità e allegria.
Nei dieci versetti di questo capitolo si contano almeno dieci riferimenti alla gioia. L’esperienza dell’esilio e della schiavitù aveva riaperto gli occhi di un popolo, li aveva purificati, aveva schiuso i suoi orecchi, sciolto la lingua e restituito agilità alle gambe. Avevano perso tutto e nel luogo più improbabile avevano ritrovato tutto.
Gli esuli avevano sperimentato che la Gloria del Signore non era rimasta in Gerusalemme e non era tornata in cielo ma li aveva accompagnati in terra straniera.
Dio può fare a meno di un tempio o di una città, ma non può vivere lontano dai suoi figli.
In esilio il popolo ricominciò dall’inizio e ricominciò dall’ascolto.
L’uomo che sente impara a parlare e l’uomo che parla entra in relazione con ciò che vede. In esilio gli esuli ricominciarono a vivere.
Gli zoppi ristabiliti non si accontentavano di camminare, ma saltavano come cervi e i muti guariti non si limitavano a parlare, ma gridavano di gioia.
La strada non era semplicemente un mezzo per ritornare a casa, ma una via santa e il cammino, un pellegrinaggio.
Sulla via del ritorno gli esuli incontrarono genti di tutte le nazioni della terra.
Erano uomini e donne che tornavano dai loro esili, che tornavano a casa, verso il monte Sion, il luogo della dimora di Dio (Is 2,2).

 

Il sordomuto che portarono a Gesù non aveva un nome.
Era un malato e uno straniero.
Vedeva senza sentire e parlava male perché non sentiva.
Sarebbe stato straniero ovunque.
Era un uomo che aveva bisogno d’intimità perché l’ascoltare e il parlare sono esperienze che riguardano la sfera intima della persona.
Per guarirlo non bastava la parola, era necessaria l’intimità del gesto e per questo Gesù lo portò in disparte, lontano dalla folla.
L’uomo sordo e muto sentì la mano di Gesù che gli sfiorava gli orecchi e poi con la saliva gli toccava la lingua.
Prima ancora di udire la parola, sentì il contatto con il corpo di Gesù, percepì la tenerezza del gesto e comprese che c’era un posto anche per lui nel regno di Dio.

 

Dai territori pagani della Decapoli Gesù avrebbe raggiunto Gerusalemme, il cuore della terra di Israele, dove da sano si sarebbe fatto malato, da cittadino straniero, e da puro impuro.
In Isaia c’era la promessa, in Gesù il compimento.

 

Mentre era sulla croce, la gente gli gridava di salvarsi come aveva salvato gli altri, se voleva che credessero in lui (Mc 15,31).

 

Ma Gesù non sentiva e non parlava, come se fosse sordo e muto.
Il suo silenzio fu un grido: Effatà, apriti.
E il centurione che stava sotto la croce, pagano e straniero, guardando quell’uomo che moriva, udì parole che gli altri non udivano e proclamò con parole chiare una fede che non sapeva di avere, come se qualcuno, il Figlio di Dio, gli avesse aperto gli orecchi e sciolto la lingua (Mc 15,39).

 


La parola ha una forza creatrice maggiore perché è con la parola che Dio ha creato il mondo. E chi studia la Torah crea a sua volta dei mondi con la sua parola.
(Alberto M. Somekh, L’albero capovolto)