PER LA SECONDA VOLTA
22 settembre 2024, XXV PER ANNUM B
(Sap 20,12.17-20; Sal 54/53; Gc 3,16 - 4,3; Mc 9,30-37)

 

Di che cosa stavate discutendo per la strada (Mc 9,33)

 

Per la seconda volta Gesù offrì ai discepoli la sua parola, com’era accaduto a Elia nel deserto (1Re19,3-7).
Ma, a differenza di Elia che si era inoltrato nel deserto desideroso di morire, i discepoli erano desiderosi di gloria.
E, a differenza di Elia, che nell’apice della sua carriera aveva compreso di non essere migliore dei suoi padri, i discepoli si sentivano migliori di quelli della loro generazione.
Altrimenti perché il Signore avrebbe chiamato proprio loro e non altri?
Di questo avevano parlato mentre erano per la strada, stando bene attendi a non farsi sentire da Gesù.
Siamo certamente migliori dei nostri padri, dicevano.
E tra noi chi potrebbe essere il più grande?
Dopo Gesù, ovviamente.

 

Erano per la strada, in cammino, anche quando il Signore aveva chiesto loro che cosa la gente dicesse di lui e, subito dopo, che cosa loro dicessero di lui (Mc 8,27-29).
Allora si trovavano a nord, nei pressi di Cesarea di Filippo, nel punto geograficamente più lontano da Gerusalemme.
E da lassù, nonostante Gerusalemme fosse ormai vicina, non si erano spostati.
Avevano fatto della strada, ma il loro cuore e la loro testa erano rimasti a Cesarea, la città che glorificava Cesare Augusto ed Erode Filippo, simbolo del potere economico, politico e militare di Roma.
Gerusalemme doveva essere il luogo della glorificazione di Gesù.
E della loro, ovviamente.

 

Per la seconda volta Gesù rivelò ai discepoli ciò che lo attendeva a Gerusalemme, ma le sue parole non servirono ai discepoli per rimetterli in cammino.
Al contrario, essi chiusero orecchi e cuore all’ascolto e ripresero a dormire, voltandosi dall’altra parte.
E non si svegliarono nemmeno quando Gesù li costrinse a dirgli ciò che lui già sapeva riguardo alla discussione su chi di loro fosse il più grande.

 

La storia del loro popolo, le storie dei padri, dei quali si ritenevano migliori, avrebbero dovuto insegnare qualcosa a proposito dell’essere grandi.

 

A cominciare da Abramo, lo sconosciuto pastore originario di Ur, al quale il Signore affidò il compito di diventare una benedizione per tutti i popoli della terra (Gen 12,1-4).

 

Il figlio di suo figlio, Giacobbe-Israele, era un arameo errante, letteralmente in rovina (Dt 26,5), un personaggio poco raccomandabile e abile nell’ingannare che finì i suoi giorni in Egitto con i suoi dodici figli.

 

E per liberare i figli di Israele dall’Egitto, luogo di schiavitù, e continuare una storia di benedizione che sembrava finita, il Signore scelse Mosè, un uomo ricercato per omicidio e balbuziente (Es 3,1-10; 4,10).

 

Due secoli dopo Dio scelse come re per il suo popolo un ragazzino fulvo di capelli e di bell’aspetto, Davide, che il padre Iesse si era dimenticato di avere (1Sam 16,11-13).

 

Geremia è solo un ragazzo che non sa parlare e corre il rischio di passare per esaltato o per ridicolo (Ger 1,6) eppure nella fase più critica della guerra contro Babilonia è a lui che il Signore affida il compito di portare la Sua parola davanti al re di Gerusalemme, ai principi e ai sacerdoti del tempio.

 

La politica del Dio biblico nella scelta del personale non è legata ai meriti del soggetto, ma al Suo paradossale modo di vedere le cose che non si ferma all’apparenza (1Sam 16,8).
Ai piccoli, a chi è in una condizione d’impreparazione spirituale e intellettuale, Egli affida missioni umanamente impossibili. Questi giovani, dal corpo fragile, dallo spirito appena sveglio, sono portatori di un messaggio gigantesco. L’immagine sarebbe grottesca se non fosse paradossalmente grave: avvertiamo che, per esprimersi, l’Assoluto ha bisogno di un essere in fase di crescita. In mezzo a un popolo colpevole, i fanciulli restano la sola speranza (André Neher).

 

I discepoli di Gesù dovevano conoscere queste storie (e molte altre) eppure non avevano imparato ancora nulla. Come gli empi di cui parla il libro della Sapienza, essi pensavano che al Giusto, che è Figlio di Dio, non potesse accadere nulla di male: Dio è pronto a liberarlo dalle mani dei suoi avversari e il soccorso gli verrà.

 

Il ragionamento degli empi è lo stesso di cui si servì Satana quando nel deserto tentò Gesù e gli offrì la possibilità di dimostrare davanti a tutti la sua onnipotenza: Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù dal pinnacolo del tempio (…). Il Signore darà ordine ai suoi angeli ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi nella pietra (Mt 4,5-6; Lc 4,9-11).
Ma la volontà di Dio è che il Figlio inciampi nella pietra e cada schiacciato dal peso della croce per condividere in tutto la condizione umana.

 

Mentre erano in cammino verso Gerusalemme Gesù cercò di far comprendere ai discepoli questa precisa volontà del Padre per prepararli a ciò che li attendeva.
Ma il loro cuore era altrove.
Nonostante i tre anni vissuti accanto al Signore i discepoli non avevano ancora compreso nulla di lui.

 

A riconoscere la verità, invece, fu un uomo con l’animo del bambino che probabilmente non conosceva Gesù e nemmeno la storia di quel piccolo popolo ostinato e ribelle.

 

Eppure, vedendolo morire, vedendo come moriva, il centurione che si trovava di fronte a lui, sotto la croce professò la sua fede e disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio! (Mc 15,19).

 

Solo tre giorni dopo, davanti alla tomba vuota, i Discepoli iniziarono a comprendere e ripresero il cammino, riconoscendo con dolore e umiltà di non essere migliori dei loro padri e nemmeno di coloro che avevano crocifisso il loro Maestro e Signore.

 


Dopo la distruzione del Tempio, il potere profetico è stato affidato ai bambini. Se questo mondo è ancora capace di salvezza, saranno i bambini a portarla.
(dal Talmud)