L’EVANGELO DI MARCO
29 settembre 2024, XXVI PER ANNUM B
(Nm 11,25-29; Sal 19/18; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48)

 

Fossero tutti profeti nel popolo del Signore (Nm 11,29)

 

L’evangelo di Marco riporta un solo intervento dell’apostolo Giovanni, fratello di Giacomo, che, se fosse stato zitto, avrebbe fatto meglio.
Egli aveva denunciato a Gesù degli esorcisti ebrei che usavano il suo nome per scacciare demoni, anche se non facevano parte del loro gruppo.

 

Forse gli bruciava ancora il fatto che, poco prima, lui e gli altri Undici non erano riusciti a liberare un ragazzo da uno spirito muto, che lo afferrava e lo gettava a terra. Il ragazzo schiumava dalla bocca, digrignava i denti e s’irrigidiva (Mc 9,14-29).
Gesù alla fine, entrato in casa, spiegò ai discepoli il motivo del loro fallimento.
Questa specie di demòni – disse – non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera.

 

Le parole del Signore avrebbero dovuto portare i Dodici al silenzio e a un esame di coscienza.

 

Invece, subito dopo, mentre erano per la strada si misero a discutere tra loro chi fosse il più grande (Mc 9,33-37).
E poi, come se non bastasse, se l’erano presa con uno che non era del loro gruppo e scacciava demoni nel nome di Gesù.
Giovanni si era fatto portavoce del loro disappunto.

 

Come il figlio di Zebedeo, anche Giosuè, figlio di Nun, dodici secoli prima, nel deserto aveva sollevato la stessa questione.

 

Tutto era iniziato quando Mosè si era lamentato per la disgraziata situazione in cui il Signore l’aveva cacciato affidandogli il peso di tutto un popolo.
L’ho forse concepito io –
disse – questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica di portarlo in grembo, come la nutrice porta il lattante, fino alla terra che tu hai giurato ai suoi padri? Non posso portare io il peso di tutto questo popolo, è troppo pesante per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, sì, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura (Nm 11,11-12.14-15).

 

Il Signore, invece di punire Mosè per la sua insolenza, accolse il suo sfogo e gli diede l’aiuto che chiedeva. Gli tolse dalle spalle una parte dello spirito che era su di lui e lo trasferì sulle spalle di settanta anziani, i quali iniziarono a profetizzare.
Tra questi ce n’erano due, Eldad e Medad, che facevano parte del gruppo ma erano arrivati tardi all’appuntamento con il Signore.
Tuttavia anch’essi si misero a profetizzare come tutti gli altri.
Giosuè trovò la cosa scorretta e ordinò a Mosè di fermarli.

 

Mosè, che era stato alleggerito dal peso di tutto questo popolo e stava sperimentando il benessere di camminare senza quello zaino pesante sulle spalle, non fu nemmeno sfiorato dal pensiero di intervenire.
Fossero tutti profeti nel popolo del Signore! – disse.

 

Il Signore aveva ascoltato lo sfogo di Mosè che gli aveva chiesto di liberarlo dal peso che stava portando come una preghiera.
Forse una preghiera religiosamente poco corretta, ma umanamente molto sincera.
Per questo il Signore la esaudì.
Il Santo, benedetto Egli sia, non si cura della forma e non si ferma all’apparenza, ma vede cosa c’è nel cuore (1Sam 16,7) e accoglie il grido di chi ha il cuore spezzato (Sl 34,19).

 

È l’orgoglio, la presunzione di potercela fare con le proprie forze, con la propria volontà che allontana il Signore.
Gli uomini tutti d’un pezzo non possono essere suoi discepoli, perché sono idoli.

 

Il Signore avrebbe aiutato i discepoli se avessero riconosciuto la propria debolezza e avessero invocato il suo aiuto, accettando il fatto che certi demòni si possono scacciare solo con la preghiera.
Invece si ostinarono a recitare formule di esorcismo pensando di potercela fare benissimo da soli.

 

Non basta far parte del gruppo, essere iscritti nella lista, per potersi dire discepoli di Gesù.
Il confine del discepolato non passa dal rispetto della forma, ma dalla sincerità del cuore.
Non basta riempirsi la bocca del nome del Signore per entrare nel regno dei cieli (Mt 7,21).
Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me (Is 29,13; Mt 15,8).
Si nomina invano il Nome di Dio, riempiendosene la bocca con il cuore lontano da lui.

 

Eldad e Medad, come lo sconosciuto esorcista ebreo che scacciava demoni nel nome di Gesù senza essere ufficialmente suo discepolo, onoravano Dio con le labbra e con il cuore.
Per questo il Signore rimproverò Giovanni, perché – disse – nessuno può fare un miracolo nel mio nome e subito dopo maledirmi.
Lo Spirito soffia dove vuole (Gv 3,8) ed è la volontà di Dio che lo dirige, non la nostra.

 

Discepolo è colui che con umiltà si fa semplice canale della grazia.
E la grazia di Dio arriva spesso attraverso canali paradossali e dalla bocca di uomini e donne che, senza averne piena coscienza, annunciano l’evangelo del regno che si è fatto vicino (Mc 1,15).
Come aveva profetizzato Gioele otto secoli prima di Gesù.
Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni effonderò il mio spirito. Chiunque invocherà il nome dl Signore, sarà salvato (Gio 3,1-2.5; At 2,17).

 

Morendo in croce Gesù consegnò lo spirito (Gv 19,30).
E lo Spirito entrò nel cuore del centurione romano, che non era di quelli che seguivano il Signore Gesù.
Fossero tutti profeti nel popolo del Signore, aveva detto Mosè dodici secoli prima. Forse il centurione non sapeva nulla di Mosè, né di essere stato scelto come il primo dei profeti della nuova alleanza, eppure è questo che accadde quando, senza alcun dubbio, riconobbe che Gesù era davvero il Figlio di Dio (Mc 15,39).

 


Pregare, per l’uomo, significa indossare l’abito dell’umiltà, significa riconoscersi creatura impotente, le cui uniche armi sono l’attesa, le mani tese nel vuoto dell’universo.
(Andrè Neher, Il pozzo dell’esilio)