IL MANCATO TREDICESIMO APOSTOLO
13 ottobre 2024, XXVIII PER ANNUM B
(Sap 7,7-11; Sal 90/89; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30)

 

Mentre Gesù andava per la strada… (Mc 10,17)

 

Il mancato tredicesimo apostolo nell’evangelo di Marco non ha nome, né età, né professione, come se l’evangelista volesse dare ai suoi lettori e a tutti i discepoli di Gesù, la possibilità di identificarsi con lui in quel breve eppure così cruciale incontro con il Maestro buono di Nazareth.
Di lui solo alla fine veniamo a sapere che era ricco, molto ricco e, soprattutto, molto attaccato alle sue ricchezze.

 

È sempre per la strada, mentre è in cammino, che Gesù chiama i suoi discepoli.
I primi quattro, Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, mentre riassettavano le reti lungo la riva del lago di Galilea (Mc 1,16-20). Anche Matteo se ne stava lungo il mare, seduto al suo banco delle imposte, quando Gesù lo chiamò (Mc 2,13-14).
Filippo e, subito dopo, Natanaele li incontrò e li chiamò quando stava partendo per la Galilea (Gv 1,43-49).

 

La strada è l’aula scolastica di Gesù e la sua cattedra, ed è mentre andava per la strada che un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio avanti a lui, gli domandò che cosa dovesse fare per avere in eredità la vita eterna.

 

Tre secoli dopo Antonio, un giovane ricco di Alessandria d’Egitto che, come il tale della parabola aveva osservato tutti i comandamenti fin dalla sua giovinezza, entrando in chiesa sentì una catechesi su questo brano dell’evangelo. Colpito dalle parole di Gesù decise subito di vendere i suoi beni. Metà del ricavato lo diede alla sorella e donò la sua parte ai poveri. Poi seguì Gesù nel deserto, dove visse da eremita fino al termine della sua lunga vita.

 

Per un attimo quel tale buono, che fin dalla sua giovinezza si era comportato in modo esemplare, abbandonò il suo educato e controllato modo di stare al mondo e corse incontro a Gesù.
La corsa non si addice alla serietà degli adulti.
Si associa istintivamente alla vivacità dei bambini, come quelli che Gesù aveva appena incontrato e che gli apostoli, con la loro patetica serietà, aveva tentato di allontanare.
Ma il Signore s’indignò con i discepoli e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio (Mc 10,13-14).

 

Diventare come un bambino è ciò che si deve fare per avere in eredità la vita eterna, per entrare a far parte del regno di Dio.

 

Per un istante, prima ancora di rendersi conto di quello che stava per dire e di ciò che stava per sentirsi dire dal Maestro buono, quel tale era diventato come un bambino che corre felice incontro al padre.

 

L’evangelo di Giovanni racconta la corsa di un altro vecchio che, all’alba del primo giorno della settimana, ritrovò l’energia del bambino. Per quanto affannato, Simon Pietro corse al sepolcro, in compagnia dell’altro discepolo, l’eterno bambino, quello che Gesù amava, per vedere in quel luogo chiuso di morte un varco per entrare nel regno della vita.
Ma, mentre l’altro discepolo, quello che Gesù amava, subito vide e credette (Gv 20,2-8), Simon Pietro aveva davanti a sé ancora molta strada da per-correre prima di tornare a essere uno di quei bambini ai quali appartiene il regno di Dio.

 

All’inizio Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, Levi e gli alti discepoli avevano lasciato casa, fratelli e sorelle, madre e padre, figli e campi, barche e banchi delle imposte per seguire Gesù, ma ancora non avevano lasciato ciò che è più possessivo della ricchezza.
Avevano lasciato le cose e gli altri ma non avevano ancora rinnegato se stessi e le loro idee sul Messia. Per ereditare la vita eterna ed entrare nel Regno bisogna perdere la vita per salvarla (Mc 8,35).

 

Il tale che corse incontro a Gesù possedeva molte ricchezze, ma in realtà erano le ricchezze che possedevano lui.

 

E Gesù, guardandolo con amore, gli chiese di abbandonare l’apparente solidità delle cose e di affidarsi alla fedeltà di Dio, di appoggiare la sua vita sulla roccia solida di una parola che non passa (Mt 24,35).
Ma i suoi molti beni gli gridarono di non fidarsi di quello strano maestro buono, senza cattedra e senza scuola, se voleva garantirsi un futuro senza disperdere tutto ciò che aveva accumulato.
Rabbi Moshe Löb di Sassov diceva: Com’è facile per un povero confidare in Dio! E in chi altro potrebbe confidare? E com’è difficile per un uomo ricco confidare in Dio, quando tutti i suoi beni gli dicono: Confida in me!

 

Così il tale arrivato da Gesù di corsa, pieno di gioia e di speranza, se ne tornò indietro, voltando le spalle a Gesù, con il passo pesante e il volto triste di chi ha visto la via che portava alla vita ma non ha trovato il coraggio di intraprenderla.

 

Così non c’è stato nessun tredicesimo apostolo.

 

Dopo che Gesù fu arrestato, anche gli altri Dodici voltarono le spalle al maestro buono. Quando con il centuplo arrivarono anche le persecuzioni, loro che all’inizio avevano lasciato tutto per seguire Gesù, alla fine abbandonarono Gesù per mettere in salvo la loro misera esistenza (Mc 14,50).

 

Ma in quel doloroso pomeriggio, vigilia della festa di Pasqua, a due uomini Gesù diede in eredità la vita eterna.
Due uomini dei quali l’evangelo non rivela il nome, come se nelle loro storie, come in quella del tale che abbiamo appena raccontato, ci fosse anche la nostra storia.
Due uomini che stavano, se così si può dire, dalla parte opposta della barricata (Mc 15,39; Lc 23,42-43).
Entrambi, il centurione che stava sotto la croce e il delinquente inchiodato alla croce, sentirono una parola di salvezza nelle ultime parole di Gesù e, senza attendere un solo istante, vendettero tutto quello che avevano per seguire quello strano maestro buono che, salito in cattedra, insegnò che cosa dovessero fare per avere in eredità la vita eterna.

 


Vivere senza Dio non è che tormento – affermò il vagabondo – perché l’uomo non può vivere senza inginocchiarsi, non sopporterebbe se stesso, nessun uomo ne sarebbe capace. Se rifiuta Dio, egli s’inginocchia davanti a un idolo, di legno o d’oro o immaginario. Costoro sono tutti degli idolatri e non degli atei; ecco come bisogna chiamarli.
(Dostoevskij, L’adolescente)