SALIRE, ULTIMA PAROLA DELLA BIBBIA EBRAICA
20 ottobre 2024, XXIX PER ANNUM B
(Is 53,10-11; Sal 33/32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45)

 

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce (Is 53,11)

 

Salire, ultima parola della Bibbia ebraica (2Cr 36,63), è il verbo che invita ogni ebreo disperso nell’impero persiano a tornare a Gerusalemme e al Tempio.
Questo ritorno in patria, questa salita, è un cammino di conversione e l’evangelo di Marco non si stanca di sottolineare che Gesù, salendo verso la Città Santa, lo portò a compimento.

 

I salmi delle salite cantano la gioia di chi parte verso la casa del Signore e dell’emozione di chi giunge alle sue porte (Sl 122,1-2).

 

Gesù ha conosciuto questa gioia ma, nello stesso tempo, era consapevole della sofferenza che lo attendeva alla fine della salita.
Tuttavia non rallentò il passo e non ritardò il cammino mentre era sulla strada per salire a Gerusalemme, e camminava davanti ai discepoli (Mc 10,32).

 

Egli cammina davanti ai discepoli perché quello è il suo posto, il motivo per cui s’è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), e chi come Pietro cerca di passargli davanti è Satana, pietra d’inciampo (Mc 8,33).
Il posto del discepolo non è davanti, e neppure a destra o a sinistra.
È dietro.

 

Mentre saliva a Gerusalemme, davanti ai discepoli per la terza e ultima volta, Gesù cercò di prepararli al destino che lo attendeva nella città che uccide i profeti (Lc 13,34), e raccontò quegli eventi ormai prossimi con precisione, senza tralasciare i particolari.
Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà (Mc 10,33).

 

Anche se i discepoli erano sgomenti e impauriti (Mc 10,32), come se percepissero il pericolo nell’aria, la loro mente e il loro cuore erano altrove.
Dopo il secondo annuncio della passione si erano messi a discutere per decidere chi fosse il più grande (Mc 9,34).
Dopo il terzo, Giacomo e Giovanni si avvicinarono a Gesù con la pretesa che facesse per loro quanto chiedevano e, senza alcun pudore, gli domandarono un posto di riguardo alla sua destra e alla sua sinistra, nella sua gloria.

 

Gesù sapeva di cosa avessero discusso i Dodici lungo la strada a proposito di chi fosse il più grande, e conosceva la pretesa dei due figli di Zebedeo.
Eppure non reagì con rabbia, accusandoli di superbia e ambizione.
Ascoltò le loro richieste e, con un’infinita pazienza, trasformò un desiderio distorto e una preghiera malata di egocentrismo, in una lezione sul discepolato a partire da ciò che lo attendeva.
Il destino del Messia è di dare la propria vita in riscatto per molti, come il Servo del Signore di cui parla il profeta Isaia che accetta la sofferenza e la trasforma in sacrificio di riparazione.
Sacrificio che è un atto d’amore che genera vita e luce.
Salendo a Gerusalemme, Gesù scese in fondo all’abisso della morte per restituire la vita a chi è sotto il dominio del diavolo e riportare alla luce chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Lc 1,79).

 

Il discepolo non è chiamato per avere un posto di riguardo alla destra o alla sinistra della gloria, ma per compiere la sua salita dietro al Figlio dell’uomo Gesù, per bere il suo stesso calice ed essere battezzato nel suo stesso battesimo.
Il posto del discepolo è quello occupato da Gesù che ha talmente preso l’ultimo posto – così dice Charles de Foucauld riportando le parole dell’abate Huvelin – che mai nessuno ha potuto toglierglielo.

 

Come il Servo del Signore, anche Mosè, nella lunga salita verso la Terra Promessa, offrì se stesso in sacrificio di riparazione per garantire la salvezza a un popolo che non la meritava.
Questo popolo – disse al Signore – ha commesso un grande peccato: si son fatti un dio d’oro. Ma se tu perdonassi il loro peccato… altrimenti cancellami dal libro che hai scritto! (Es 32,30-32).

 

Gesù non dice tra voi non sia così, o tra voi non sarà così, ma tra voi non è così.
Il verbo al presente indica che l’essere servi e schiavi di tutti è ciò che costituisce il discepolo.
Prima di attraversare la porta stretta che porta alla vita e alla risurrezione, è necessario salire lungo la via angusta che porta al crocevia del Golgota (Mt 7,13-14).

 

Questo fu l’ultimo insegnamento di Gesù ai discepoli prima del suo ingresso a Gerusalemme.
Poi, nella città che uccide i profeti, parlò con i suoi gesti e, soprattutto con i suoi silenzi.

 

Salire è l’ultima parola della bibbia ebraica, il verbo che invita ogni ebreo disperso nell’impero persiano a tornare a Gerusalemme e al Tempio.

 

Salendo sul Golgota davanti a tutti, Gesù ha portato a compimento questo verbo, che è il verbo della conversione.
E non l’ha fatto solo per le pecore perdute della casa di Israele.

 

Come il Servo del Signore che offre se stesso in sacrificio di riparazione, anche Gesù diede la sua vita in riscatto per molti.
A cominciare da due delinquenti che il Padre collocò alla destra e alla sinistra di Figlio, nel momento in cui fu glorificato sulla cima del Golgota (Mc 15,27).

 

Nessuno dei discepoli stava sotto la croce.
Tutti lo avevano abbandonato ed erano fuggiti (Mc 14,50), voltando le spalle al Maestro per mettersi in salvo.

 

Anche per loro (e per noi) Gesù offrì la sua vita perché, dopo avere sperimentato la tristezza dell’esilio, della lontananza dalla casa del Padre (Lc 15,18), ritrovassero la forza di riprendere la via del ritorno e la gioia di salire dietro a Lui.

 


La morte del nostro Signore non fu assolutamente per salvarci dai peccati, né per qualcos’altro, ma solo perché il mondo sperimentasse l’amore che Dio ha per la creazione.
(Isacco di Ninive, Cent. IV,78)