NEL CORTILE DEL TEMPIO
3 novembre 2024, XXXI PER ANNUM B
(Dt 6,2-6; Sal 18/17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34)
Non sei lontano dal regno di Dio (Mc 12,34)
Nel cortile del Tempio Gesù si scontrò prima con tre gruppi, i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani (Mc 11,27).
Poi ne affrontò due, farisei ed erodiani (Mc 12,13).
E subito dopo discusse con uno, i sadducei, sulla questione della risurrezione (Mc 12,18).
Infine si avvicinò a Gesù uno degli scribi.
Nell’evangelo di Marco è la prima volta che uno degli avversari di Gesù osò staccarsi dal gruppo ed avvicinarsi a lui per interrogarlo.
Ed è anche l’unica che Gesù loda la saggezza di un rappresentante dell’autorità religiosa che ebbe il coraggio di affrontarlo personalmente.
La questione che lo scriba pose a Gesù sul primo di tutti i comandamenti era molto dibattuta all’interno delle scuole rabbiniche, senza che si trovasse mai un consenso definitivo.
Ma l’atto dell’uomo che esce da gruppo e si avvicina a Gesù è più importante della stessa domanda e dei dibattiti tra scuole teologiche.
L’amore è anzitutto un atto di avvicinamento e gli evangeli non smettono di sottolinearlo raccontando storie di uomini e donne che escono dalla folla e si avvicinano a Gesù con umiltà chiedendo la grazia di una guarigione o di una parola che salvi.
Nicodemo fu uno di questi e il suo lungo cammino di avvicinamento a Gesù è raccontato dall’evangelo di Giovanni. Era un fariseo, uno dei capi dei Giudei, e la prima volta andò da Gesù di notte, protetto dall’oscurità (Gv 3,1).
In seguito, timidamente, prese la parola davanti al suo gruppo sollevando qualche dubbio sulla legittimità di condannare un uomo prima di averlo ascoltato (Gv 7,50-51).
Infine, incurante del giudizio altrui e dell’impurità che avrebbe contratto toccando un cadavere, portò trenta chili di una mistura di mirra e aloe e aiutò Giuseppe di Arimatea e deporre Gesù nel sepolcro (Gv 19,39-42).
Anche Giuseppe d’Arimatea era un membro autorevole del sinedrio. Non sappiamo se avesse mai avuto a che fare con Gesù, né se fosse presente la notte del processo nella casa del sommo sacerdote. Ma con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in un sepolcro (Mc 15,42-46).
Egli aspettava il regno di Dio e ne riconobbe la presenza in quell’uomo crocifisso.
Si avvicinò a Gesù anche la donna che, confondendosi tra la folla, sfiorò il mantello di Gesù. Da dodici anni soffriva di una forma di emorragia cronica e non aveva il coraggio di mostrarsi in pubblico. Si accostò a Gesù con discrezione e il suo tocco leggero raggiunse il cuore del Figlio di Dio che la costrinse a uscire dal cerchio per indicarla come modello del vero credente (Mc 5,25-34).
Un pagano che si avvicinò molto a Gesù senza incontrarlo fu il centurione di Cafarnao il cui servo era ammalato e stava per morire. Si servì di intermediari per chiedere al Signore la guarigione del servo. Ma per un atto di umiltà non di superbia e le sue parole sono così belle e importanti che la liturgia le fa ripetere ogni volta che ci accostiamo all’eucaristia.
Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto… ma dì una parola e il mio servo sarà guarito (Lc 7,1-10).
Ci si può avvicinare molto a Gesù senza incontrarlo o rimanendo in disparte, in fondo al tempio come il pubblicano che a capo chino pregava dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
D’altra parte si può essere molto lontani da Dio, avendoci sempre a che fare, nominandolo troppo e invano, servendosi di Lui invece di servirlo (Lc 18,10-14).
Prima di entrare a Gerusalemme un uomo che non poteva vedere Gesù lo raggiunse con il suo grido: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me.
Molti cercarono di zittirlo perché non disturbasse il Maestro.
Ma Gesù lo chiamò e lo fece avvicinare per restituirgli la luce della fede oltre a quella degli occhi (Mc 10,46-52).
L’amore dovuto a Dio e al prossimo non sono atti di culto ma di avvicinamento.
E l’avvicinarsi, il farsi prossimo (Lc 10,29-37), richiede cuore e anima, intelligenza e forza.
Le storie che abbiamo raccontato parlano di piedi, mani e occhi, di parole e silenzio, contatto e distanza.
La preghiera dello Shemà, che gli ebrei recitano due volte al giorno, all’inizio e alla fine della giornata, termina con parole che parlano di vita quotidiana: di figli e figlie, di case e di strade su cui si cammina, di sonno e veglia, di notti e di albe, di mani e occhi.
Questi precetti ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano, come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi, li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte (Dt 6,7-9).
Quel giorno, nel cortile del tempio, uno degli scribi si staccò dal gruppo e si avvicinò a Gesù e il Regno di Dio si avvicinò a lui.
Anche sul Golgota due personaggi uscirono dal gruppo e si fecero incontro a Gesù.
Mentre i capi dei sacerdoti con gli scribi deridevano e insultavano il Cristo di Dio, uno dei malfattori crocifisso alla destra di Gesù si limitò chiedere la grazia di un ricordo, nient’altro. Come allo scriba Gesù avrebbe potuto dirgli: Non sei lontano dal Regno di Dio!
Invece gli disse: Tu sei arrivato. Oggi sarai con me in paradiso (Lc 23,35-43).
Nemmeno il centurione che stava presso la croce si associò ai soldati che schernivano Gesù. Egli, vedendolo morire, vedendo come moriva, si coprì il volto e gli si prostrò davanti riconoscendolo come Figlio dell’Unico Dio, da amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze (Mc 15,39).
Commenta rabbi Eli’ezer Papo: L’essenza del precetto che impone di amare il prossimo è nel cuore: non essere felici della disgrazia altrui. Occorre invece essere allegri del suo successo e rattristarsi della sua disgrazia fino a pregare per lui. L’amore del prossimo si realizza davvero allorché si tiene presente il detto talmudico secondo cui persino di fronte alla disgrazia dei malvagi il Santo Benedetto si rattrista a sua volta.
(Alberto M. Somekh, L’albero capovolto)