UNA LEGGENDA NARRA CHE  
6 agosto 2023, Trasfigurazione del Signore
(Dan 7,9-10.13-14; Sl 97/96; 2 Pt 1,16-19; Mt 17,1-9)

 

Il suo voltò brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce (Mt 17,2)

 

Una leggenda narra che Vladimir, principe di Kiev, inviò emissari presso i mussulmani, gli ebrei, i cristiani d’oriente e quelli d’occidente, per la scelta della fede. Il rapporto che questi gli fecero su ciò che avevano vissuto a Costantinopoli lo avrebbe fatto decidere senza alcuna esitazione in favore del cristianesimo nella forma bizantina. Essi dicevano: Non sapevamo se eravamo in cielo o in terra, perché sulla terra non si trova simile bellezza.

 

Mentre erano in vita Pietro, Giacomo e Giovanni furono testimoni oculari di simile bellezza. Una bellezza luminosa perché, come dice Simeone il Nuovo Teologo, Dio è Luce, e coloro che egli rende degni di vederlo, lo vedono come Luce.

 

La tradizione identifica l’alto monte della trasfigurazione con il Tabor, un cono di 580 metri che s’innalza solitario sulla piana di Izreel, nove chilometri a est di Nazareth e venti a sud ovest del lago di Genezaret.
Il significato del nome Tabor è oscuro: per alcuni significa pascolo o altura, per altri libertà, luce, limpidezza.
In ogni caso, nessuno degli evangelisti precisa il nome dell’alto monte, come se l’esperienza vissuta dai tre apostoli non fosse localizzabile.
Essi furono portati verso l’alto, raggiunsero le vette del Divino, ma sprofondarono anche verso il basso, in fondo all’abisso del Mistero.
Furono avvolti dalla bellezza della luce e sperimentarono l’angoscia del buio.
Provarono la gioia di essere lì e il desiderio di rimanerci per sempre, e il timore di rimanere schiacciati sotto il peso della Gloria Divina.

   

Nel racconto evangelico, la luce si sprigiona dal Cristo trasfigurato.
Ma la trasfigurazione fu anche quella degli apostoli, i quali per un istante passarono dalla carne allo spirito e ricevettero la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto le vesti del figlio del falegname.
Nel corpo di Gesù abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,9) e la sua umanità, come insegnano i monaci della tradizione orientale, è una fiaccola di vetro.
Ma solo se i nostri occhi vengono trasfigurati, dalla potenza dello Spirito possono vedere questa luce che traspare dall’umanità di Gesù.

 

Paolo visse questa grazia della luce che lo rese cieco per tre giorni nell’incontro-scontro con Gesù sulla via di Damasco, verso l’anno 35 (At 9,1-9a; 22,4-21; 26,9-18).
Sette anni dopo, durante il suo soggiorno ad Antiochia, prima del suo primo viaggio apostolico, fu rapito fino al terzo cielo, in paradiso, se con il corpo o fuori del corpo non saprebbe dirlo, lo sa solo Dio, dove udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare (2 Cor 12,1-4).

 

Questa straordinaria esperienza è umanamente possibile, ma non è indispensabile.
Solo ad alcuni Dio la concede, il perché lo sa solo Dio.
Infatti nove discepoli su dodici rimasero ai piedi del monte.
Non videro la luce, né la nube e non udirono alcuna voce e il mondo rimase, rassicurante, al suo posto, con il sole che segnava il trascorrere del tempo, i contadini che lavoravano nei campi, gli uccellini che cantavano sugli alberi.
Dentro questo mondo solido e rassicurante Gesù riaccompagnò Pietro, Giacomo e Giovanni, con l’ordine (a mio avviso superfluo) di non raccontare a nessuno l’esperienza che avevano vissuto prima della sua risurrezione dai morti.

 

Per Pietro, Giacomo e Giovanni (ma anche per gli altri che non erano saliti sull’alto monte) c’era ancora un lungo cammino da compiere prima di ritrovare la luce della risurrezione, all’alba del primo giorno della settimana (Mt 28,1).
Un cammino che doveva attraversare il buio crocevia del Golgota.

 

Il Figlio di Dio che si trasfigura sul Tabor e il Figlio dell’uomo che si lascia sfigurare sul Golgota non possono essere separati.
Solo il discepolo che, per grazia, condivide con Gesù entrambe le esperienze, quella luminosa della vetta e quella oscura della passione, arriva a intuire qualcosa del mistero di Dio. Ma è fondamentale che ci siano entrambe perché senza il cammino verso la passione le esperienze della vetta diventano illusorie, e senza l’esperienza luminosa della risurrezione, il cammino verso la passione diventa una marcia funebre senza speranza (Ulrich Luz).

 

Su un altro monte, il monte degli Ulivi, Gesù portò i discepoli, prima di essere arrestato.
Quella notte chiese a Pietro, Giacomo e Giovanni di rimanergli accanto e di vegliare con lui. La sua anima era triste fino alla morte, ma i discepoli chiusero gli occhi e si addormentarono per non vedere il volto di Gesù sfigurato dalla tristezza e dall’angoscia (Mt 26,36-46).

 

Di questo, del suo esodo che doveva compiersi a Gerusalemme, Gesù aveva parlato con Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (Lc 9,31).

 

E, come alla fine dell’esperienza luminosa del Tabor non ci fu più nessuno se non Gesù solo, così anche quella notte Gesù rimase solo.

 

Tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono (Mt 26,56), voltarono le spalle al Figlio di Dio tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto (Is 52,14).

 

Eppure fu da quel santo monte del Golgota che Gesù mostrò la Gloria del Padre.
La luce dentro il buio, la vita nell’abisso della morte.
La croce è la fiaccola di vetro da cui traspare la luce di Dio, è il candelabro posto in alto (Mt 5,15) che illumina tutti quelli che volgeranno lo sguardo a colui che è stato trafitto (Gv 19,37; Zc 12,10).

 

A pochi è data la grazia di essere rapiti in cielo, mentre sono ancora in vita.
Ma questa esperienza è una grazia e non dipende da noi.

 

In ogni caso, come dice san Paolo che l’ha vissuta, non è di questo che ci si deve vantare, ma delle nostre debolezze (2Cor 12,5) perché, più ancora che dalle nostre opere buone (Mt 5,16), è dalle crepe della nostra fragile esistenza che traspare la luce dell’Eterno.

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Ogni uomo, chiunque, è condannato a vagare intorno all’Essenza senza poterla raggiungere, ad apprendere l’Assoluto senza poterlo comprendere. Questa è la definizione della posizione umana di fronte a Dio fornita dalla Bibbia.
(Andrè Neher, Hanno ritrovato la loro anima)