Siamo al 28 febbraio 2013, un giorno particolare per la Storia della Chiesa, fra poche ore la sede papale sarà dichiarata vacante e Papa Benedetto XVI lascerà il Ministero Petrino. Per noi che ci diciamo cristiani, amanti della Bellezza, musicisti, questo Papa ha significato davvero molto. Ecco perché lo salutiamo con la pubblicazione di un discorso che l'allora Cardinale Joseph Ratzinger, nel 1985, tenne all’Ottavo Congresso Internazionale di Musica Sacra, nel 1985, dal titolo "Liturgia e Musica Sacra". Un testo particolarmente ricco per spunti di riflessione, ma anche per la chiarezza con cui veniva affrontato il doloroso problema (allora come oggi) della musica liturgica e, ancor di più, del significato stesso di Liturgia, sgombrando il campo da una serie di foschi equivoci sui quali la mia generazione (sono del 1958) e le successive sono cresciute in fatto di appartenenza alla Chiesa Cattolica.

 

LITURGIA E MUSICA SACRA

 

Premessa

Tra la liturgia e la musica sin dagli inizi c’è stato un rapporto fraterno. Quando l’uomo loda Dio, la sola parola è insufficiente. La parola rivolta a Dio trascende i limiti del linguaggio umano. Per questo moti­vo tale parola in ogni tempo, proprio in forza della sua natura, ha invo­cato in aiuto la musica, il cantare e la voce del creato nel suono degli strumenti. Infatti, alla lode di Dio non partecipa soltanto l’uomo. La li­turgia quale servizio di Dio è l’inserirsi in ciò di cui parlano tutte le cose.

Per quanto la liturgia e la musica in forza della loro natura siano strettamente congiunte tra di loro, la loro relazione è sempre stata dif­ficile, soprattutto nei momenti nodali di transizione nella storia e nella cultura. Non v’è perciò da meravigliarsi, che anche oggi sia di nuovo po­sto in discussione il problema di una forma adeguata della musica nel­la celebrazione liturgica. Nelle dispute del Concilio e subito dopo pare­va che si trattasse semplicemente della divergenza tra persone dedite alla prassi pastorale da un lato e musicisti di chiesa dall’altro lato. Que­sti ultimi non volevano lasciarsi coartare da una formalità puramente pastorale, mentre si sforzavano di affermare la dignità intrinseca della musica quale misura di un proprio valore pastorale e liturgico. Si aveva pertanto l’impressione che il conflitto per la massima parte riguardasse unicamente l’ambito dell’uso della musica. Nel frattempo, tuttavia, la spaccatura si fa più profonda.

La seconda ondata della riforma liturgica spinge il problema sino a raggiungere i suoi fondamenti. Si tratta ora della natura dell’azione liturgica in quanto tale, delle sue basi antropologiche e teologiche. Il conflitto che investe la musica sacra è sintomatico e scopre un proble­ma più profondo, e cioè: che cosa sia la liturgia.

 

1. Superare il Concilio? Una nuova concezione della liturgia.

La nuova fase in cui si afferma la volontà di una riforma liturgica considera esplicitamente suo fondamento non più le parole del Concilio Vaticano Il, bensì il suo «spirito». Utilizzo quale testo paradigmatico l’articolo ben informato e coerente su «Canto e musica nella Chiesa» del Nuovo Dizionario di Liturgia. Qui non si mette affatto in discussio­ne l’alto valore artistico del canto gregoriano o della polifonia classica. E non si tratta neppure di opporre l’una contro l’altra l’attività dell’as­semblea e un’arte di élite. Punto nodale della discussione non è nean­che il rifiuto di un irrigidimento storico che copia soltanto il passato e perciò stesso rimane senza presente e senza futuro. Si tratta piuttosto di una nuova concezione di fondo della liturgia, con cui si vuole supe­rare il Concilio, la cui Costituzione liturgica avrebbe racchiuso «due anime». (F. Rainoldi, E. Costa, Canto e musica, in D. Sartore, A.M. Triacca, [a cura di] Nuovo Dizionario di Liturgia, Roma, 1984, p. 198-219. A p. 211 a: «[...] I documenti del Vaticano II rivelano l'esistenza di due anime»; a p. 212 a: «Questa serie di spunti, dedotti dallo spirito, più che dalla lettera del Vaticano II [...] ».) (Nei paragrafi seguenti, il numero di pagina tra parentesi fa riferimento all'edizione appena citata [n.d.r.])

 

Gruppo o Chiesa?

Cerchiamo brevemente di conoscere questa concezione nelle sue li­nee maestre. Il punto di partenza della liturgia - così ci viene detto - è il riunirsi di due o tre che stanno insieme nel nome di Cristo (p. 199 a). Questo riferimento alla parola del Signore (Mt 18, 20) di primo acchito sembra innocuo e tradizionale. Ma tale parola acquista una portata ri­voluzionaria per il fatto che la citazione biblica è tolta dal suo contesto e viene fatta risaltare per contrasto sullo sfondo di tutta la tradizione liturgica. Perché i «due o tre» sono messi ora in opposizione nei con­fronti di un’istituzione con ruoli istituzionalizzati e nei confronti di ogni «programma codificato». Così tale definizione significa quanto segue: non è la Chiesa che precede il gruppo, bensì il gruppo precede la Chiesa. Non la Chiesa nel suo insieme fa da supporto alla liturgia dei singoli gruppi e comunità, bensì il gruppo stesso è il luogo dove di volta in volta nasce la liturgia. La liturgia perciò non si sviluppa neppure par­tendo da un modello comune, da un «rito» (ridotto, in quanto «pro­gramma codificato», all’immagine negativa della mancanza di libertà); la liturgia nasce nel momento e nel luogo concreto grazie alla creatività di quanti sono riuniti. In tale linguaggio sociologico il sacramento del sacerdozio viene considerato un ruolo istituzionalizzato che si è procu­rato un monopolio (p. 206 a) e, grazie all’istituzione (cioè alla Chiesa) ha dissolto l’unità primitiva e la comunitarietà dei gruppi. In tale contesto la musica, così ci viene detto, come pure il latino, sono divenuti un lin­guaggio da iniziati, «la lingua di un’altra Chiesa, cioè dell’istituzione e del suo clero».

 

Due Chiese?

L’aver isolato il passo di Mt 18, 20 dall’intera tradizione biblica ed ecclesiale della preghiera comune della Chiesa, come si vede, mostra ora gravi conseguenze: a partire dalla promessa che il Signore ha fatto a quanti pregano in ogni luogo, si è fatta una dogmatizzazione dei gruppi autonomi. La comunanza della preghiera è stata esasperata sino a divenire un appiattimento che considera lo sviluppo del ministero sacerdo­tale il sorgere di un’altra Chiesa. Da questo punto di vista ogni propo­sta che viene dalla Chiesa universale è giudicata una catena contro cui bisogna insorgere per amore della novità e libertà della celebrazione li­turgica. Non l’ubbidienza di fronte a un tutto, bensì la creatività del mo­mento diviene la forma determinante.

 

Mistificazioni?

È evidente che insieme all’adozione di un linguaggio sociologico si è avuta pure l’assunzione di valori: la gerarchia di valori che ha dato forma al linguaggio sociologico costruisce una nuova visione della sto­ria e del presente. Così alcuni concetti consueti (per di più anche con­ciliari!) - come «il grande patrimonio della musica sacra », «l’organo re degli strumenti », «l’universalità del canto gregoriano» - sono bol­lati quali «mistificazioni» usate allo scopo di «conservare una determi­nata forma di potere e di visione ideologica» (p. 200 a).

Un certo modo di amministrare il potere (così ci viene detto) si sen­te minacciato dai processi di trasformazione culturali e «reagisce, fino a mascherare come amore alla tradizione il desiderio di autoconserva­zione» (p. 205 a). Il canto gregoriano e Palestrina sarebbero i «numi tu­telari» di un antico repertorio mitizzato (p. 210 b), elementi di una «con­tro-cultura cattolica» che si appoggia ad essi quali «archetipi remitiz­zati e supersacralizzati” (p. 208 a), come d’altronde alla liturgia storica sta a cuore più la rappresentazione di una burocrazia del culto che non l’azione corale di un popolo (p. 206 a). Il contenuto del Motu Proprio di Pio X sulla musica sacra viene infine considerato «una ideologia cul­turalmente miope e teologicamente fumosa di una "musica sacra"» (p. 211 a). Qui, evidentemente, non è più soltanto il sociologismo all’opera, ma siamo di fronte a una totale separazione del Nuovo Testamento dal­la storia della Chiesa, che si unisce a una teoria della decadenza caratte­ristica di molte situazioni illuministiche: le realtà nel loro stato puro si incontrano soltanto negli inizi primordiali gesuanici; tutto il resto della storia appare una «vecchia avventura musicale» con «esperienze disorientate ed impazzite», che ora deve «essere chiusa», per riprende­re finalmente la via giusta (p. 212 a).

 

Materialismo

Ma come si configura questa realtà nuova e migliore? I principi ba­se sono già stati sfiorati in precedenza; ora dobbiamo prestare atten­zione alla loro concretizzazione particolare. Sono formulati in modo chiaro due valori di fondo. Il «valore primario» di una liturgia rinno­vata, come ci è detto, sarebbe «l’agire delle persone (tutte) in pienez­za ed autenticità» (p. 211 b). Di conseguenza la musica di Chiesa in primo luogo significherebbe che il «popolo di Dio» rappresenta la sua iden­tità cantando. Con ciò è chiamato in causa anche già il secondo criterio di valore che qui è attivo: la musica risulta essere la forza che opera la coesione del gruppo. I canti familiari a una comunità ne diven­tano, per così dire, il suo distintivo (p. 217 b). Da queste premesse scaturiscono le categorie principali della strutturazione musicale della liturgia: il pro­getto, il programma, l’animazione, la regia. Più importante del che cosa (così ci è detto) sarebbe il come (p. 217 b). Essere in grado di celebrare sarebbe soprattutto «essere in grado di fare». La musica dovrebbe so­prattutto essere «fatta» (p. 218 b: «[...] i membri dell'assemblea credente, e soprattutto gli animatori del rito [...] sapranno acquistare [...] quella capacità fondamentale, che è il "saper celebrare" ossia un saper fare [...]»

Per non essere ingiusto, devo aggiungere che si mostra tuttavia nell’articolo in questione comprensione per le diverse situazioni culturali e che rimane anche dello spazio aperto per l’assunzione del patrimonio storico. E soprattutto è sottolineato il carattere pasquale della liturgia cristiana il cui canto non soltanto rappresenta l’identità del popolo di Dio, ma dovrebbe rendere anche conto della speranza e annunciare a tutti il volto del Padre di Gesù Cristo (p. 212 a).

 

Errata interpretazione del Concilio

Permangono così elementi di continuità nella grossa rottura: essi permettono il dialogo e infondono speranza che si possa ritrovare l’unità nella comprensione basilare della liturgia che tuttavia minaccia di sfug­gire, quando si fa derivare la liturgia dal gruppo invece che dalla Chie­sa - non soltanto sul piano teoretico, bensì nella prassi liturgica con­creta. Non mi dilungherei tanto su questo testo pubblicato in un dizio­nario prestigioso, se pensassi che tali idee siano da attribuire unicamente ad alcuni singoli teorici. Ancorché sia fuori dubbio che essi non si pos­sono appoggiare a nessun testo del Vaticano II. in alcuni uffici e orga­ni liturgici si è consolidata l’opinione che lo spirito del Concilio orienta in tale direzione. Un’opinione fin troppo diffusa suggerisce oggi le con­cezioni or ora esposte che, cioè, le categorie proprie della comprensione conciliare della liturgia siano appunto la cosiddetta creatività, l’agire di tutti i presenti e il riferimento a un gruppo di persone che si conoscono e interpellano a vicenda. Non solo giovani preti, ma talvolta anche ve­scovi hanno la sensazione di non essere fedeli al Concilio, se pregano tutto così come sta nel Messale. Deve esserci almeno una formula «crea­tiva», per banale che sia. E il saluto «civile» dei presenti, possibilmen­te anche i cordiali saluti al congedo, sono già divenuti parti d’obbligo dell’azione sacra, cui quasi nessuno osa sottrarsi.

 

2. Il fondamento filosofico del concetto e la sua messa in questione

Con tutto ciò non si è tuttavia ancora sfiorato il nocciolo del pro­blema, della mutazione cioè di valore. Tutto quanto si è detto deriva dall’aver preposto il gruppo alla Chiesa. Ma perché mai è avvenuto ciò? Il motivo sta nel fatto che si è sussunta la Chiesa nel concetto generico di «istituzione» e che il termine «istituzione» nel tipo di sociologia qui adottato, reca in sé una qualità negativa. Essa incarna il potere e il po­tere è il contrario della libertà. Dato che la fede (la sequela di Gesù) è concepita quale valore positivo, deve stare dalla parte della libertà e per sua natura deve quindi essere anche anti-istituzionale. Di conseguenza anche la liturgia non può essere un sostegno o una parte dell’istitu­zione; deve invece costituire una forza contrastante che aiuti a rovescia­re i potenti dal trono. La speranza pasquale, di cui la liturgia deve da­re testimonianza, sviluppandosi da questo punto di partenza può dive­nire molto terrena. Essa diviene speranza nel superamento delle istitu­zioni e diventa pure mezzo di lotta contro il potere. Colui che conosce la Missa Nicaraguensis anche per averne soltanto letto i testi, può farsi un’idea di questo slittamento della speranza e del realismo che la litur­gia acquisisce qui in quanto strumento di una promessa militante. Si può anche vedere quale significato e importanza si attribuisce alla musica nella nuova concezione. La forza d’urto dei canti rivoluzionari comunica un entusiasmo e una convinzione che non potrebbero derivare da una liturgia semplicemente recitata. Qui non vi è più nessuna opposizione alla musica liturgica. Essa ha ottenuto un nuovo ruolo insostituibile nel risvegliare le energie irrazionali e lo slancio comunitario cui tutto tende. Ma parimenti la musica è formazione delle coscienze, perché la parola cantata si comunica in modo progressivo e molto più efficace allo spiri­to che non la parola letta o solo pensata. Del resto, nel cammino che por­ta alle liturgie di gruppo intenzionalmente si supera il limite della comunità locale: grazie alla forma liturgica e alla sua musica si costituisce una nuova solidarietà, per mezzo della quale deve formarsi un nuovo popolo, che si autodefinisce popolo di Dio, mentre di fatto per Dio in­tende se stesso e le energie storiche, che si sono sviluppate in sé.

 

Liturgia e libertà

Ritorniamo ancora all’analisi dei valori che sono diventati determi­nanti nella nuova coscienza liturgica. Si tratta da un lato della qualità negativa del concetto di istituzione e della considerazione della Chiesa esclusivamente sotto questo aspetto sociologico, per di più non nell’ot­tica di una sociologia empirica, bensì da un punto di vista che deriva dai cosiddetti maestri del sospetto. Si vede che hanno compiuto la loro opera in modo molto efficace. Hanno infatti raggiunto una determina­zione delle coscienze che è attiva anche là dove non si sa nulla di que­sta origine. Il sospetto d’altronde non avrebbe potuto avere una tale for­za incendiaria, se non fosse accompagnato da una promessa, il cui fa­scino è quasi inevitabile: dall’idea, cioè, della libertà quale diritto au­tentico della dignità dell’uomo. Sotto questo aspetto il nocciolo della discussione deve essere la domanda: Che cosa è il vero concetto della libertà? Con ciò la disputa sulla liturgia è ricondotta al suo punto essen­ziale, poiché nella liturgia, infatti, si tratta della presenza della salvezza, dell’adito alla vera libertà. Nell’aver messo in luce il nocciolo della que­stione sta senza dubbio l’elemento positivo della nuova disputa.

 

Liturgia senza la Chiesa?

Contemporaneamente siè manifestato ciò che oggi costituisce il ve­ro disagio dei cristiani cattolici. Se la Chiesa ora appare soltanto come istituzione, come detentrice del potere e perciò come controparte della libertà, come impedimento alla salvezza, allora la fede contraddice se stessa; perché da un lato non può fare a meno della Chiesa, ma dall’al­tro è schierata fondamentalmente contro di essa. Ciò costituisce anche il paradosso davvero tragico di questo orientamento della riforma li­turgica, perché la liturgia senza la Chiesa è in sé una contraddizione. Là ove tutti agiscono affinché tutti diventino soggetto, svanisce - con la Chiesa soggetto comune - anche il vero «attore» della liturgia. Si dimentica, infatti, che essa dovrebbe essere «Opus Dei», in cui Egli stesso agisce per primo e in cui noi, proprio per mezzo della sua azione, siamo redenti. Dove il gruppo celebra se stesso, celebra in realtà un nulla, perché il gruppo non è un motivo per celebrare. Ed è per ciò che l’agire di tutti produce noia: non avviene in realtà nulla, se rimane as­sente Colui, che tutto il mondo attende. Il passaggio ad intenti più con­creti, come si riflettono nella Missa Nicaraguensis, è così soltanto logico.

 

Morti seppelliscono altri morti

I sostenitori di questo modo di pensare devono perciò essere interrogati con ogni franchezza: È la Chiesa davvero soltanto istituzione, bu­rocrazia del culto, apparato di potere? È il ministero sacerdotale sol­tanto monopolizzazione di privilegi sacrali? Se non si riesce a superare queste concezioni anche sul piano affettivo e a vedere col cuore la Chie­sa in un altro modo, la liturgia allora non sarà rinnovata, bensì morti seppelliscono altri morti, e definiscono ciò riforma.

 

Riscoprire la Chiesa

Allora, naturalmente, non c’è neanche più la musica da Chiesa. An­zi, di diritto non si può neanche più parlare di liturgia, dato che essa presuppone la Chiesa: ciò che rimane sono rituali di gruppo che si ser­vono più o meno abilmente di mezzi espressivi musicali. Se la liturgia deve sopravvivere o persino essere rinnovata, è di necessità elementare che la Chiesa sia riscoperta nuovamente. E aggiungo: se l’alienazione dell’uomo deve essere superata, se egli deve ritrovare la sua identità, è indispensabile che ritrovi la Chiesa. Essa, infatti, non è una istituzione misantropica, bensì quel nuovo Noi in cui finalmente l’Io può acquisire la sua base e la sua dimora.

 

Cristo e la Chiesa

Sarebbe benefico rileggere in questo contesto con molta attenzione il libretto con cui Romano Guardini, il grande pioniere del rinnovamen­to liturgico, ha concluso la sua opera letteraria nell’ultimo anno conci­liare. Egli stesso sottolinea di aver scritto questo libro preoccupato dell’amore per la Chiesa, della quale conosceva benissimo la condizione umana e i suoi rischi. Ma egli aveva imparato a scoprire in quella umanità lo scandalo dell’incarnazione di Dio: aveva imparato a vedere in essa la presenza del Signore che ha reso la Chiesa suo corpo; soltanto se così è, esiste una contemporaneità di Gesù Cristo con noi. E soltanto se c’è questa, esiste una liturgia reale che non è soltanto un ricordare il mistero pasquale, bensì è la sua presenza vera. E ancora, soltanto se così è, la liturgia è partecipazione al dialogo trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Soltanto in questo modo la liturgia non è il nostro «fa­re», bensì opus Dei, l’agire di Dio su di noi e in noi. Perciò Guardini ha sottolineato espressamente che nella liturgia non importa fare qualcosabensì essere. Pensare che l’agire di tutti sia il valore centrale della liturgia è il contrario più radicale che si possa immaginare alla concezione di Guardini della liturgia. In verità, l’agire di tutti non sol­tanto non è il valore fondamentale della liturgia, ma come tale non è affatto un valore.

 

Le tre dimensioni della Liturgia

Mi astengo dall’approfondire ulteriormente questi problemi; dob­biamo concentrarci allo scopo di trovare il punto di partenza e la nor­ma per una giusta unione di liturgia e musica. Infatti, anche da questo punto di vista, è di grande portata la constatazione che il vero soggetto della liturgia è la Chiesa e, più precisamente, la communio sanctorum di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ne risulta non soltanto - come Guar­dini nel suo scritto giovanile Liturgische Bildung ha mostrato in mo­do particolareggiato - l’indisponibilità della liturgia nei confronti dell’arbitrio del gruppo e del singolo (anche del clero e degli specialisti), insomma ciò che Guardini chiamava la sua oggettività e la sua positi­vità. Ne risultano soprattutto anche le tre dimensioni ontologiche in cui essa vive: il cosmo, la storia e il mistero. Il richiamo alla storia comprende uno sviluppo, cioè l’appartenenza a qualcosa di vitale, che ha un inizio, il quale continua a operare, rimane presente senza essere conchiuso, e vive nella misura in cui si sviluppa ulteriormente. Qualco­sa si atrofizza, qualcosa viene dimenticato e ritorna in seguito sotto nuova forma, sempre però lo sviluppo significa partecipazione a un ini­zio aperto in avanti. Con questo abbiamo già toccato una seconda ca­tegoria che, messa in relazione col cosmo, acquisisce la sua importanza specifica: la liturgia compresa in tale modo viene nella forma fonda­mentale della partecipazione. Nessuno è il suo primo e unico creatore, per ognuno essa è partecipazione ad una realtà più ampia, che lo supera, ma ognuno è altrettanto anche un «attore», proprio perché è ri­cettore. Il riferimento al mistero, infine, significa che l’inizio dell’avve­nimento liturgico non sta mai in noi stessi. È risposta a una iniziativa dall’alto, a un appello e ad un atto d’amore che è mistero. I problemi esistono per essere chiariti; il mistero invece non si dischiude alla chia­rificazione, bensì soltanto quando lo si accetta nel «sì», che, sulla trac­cia della Bibbia, possiamo tranquillamente chiamare ubbidienza, an­che oggi.

 

Creatività assurda e falsa

Con ciò siamo giunti ad un punto di grande importanza per il col­legamento con il fattore artistico. La liturgia di gruppo, infatti, non è cosmica in quanto vive appunto dall’autonomia del gruppo. Non ha sto­ria, ma è caratterizzata proprio dall’emancipazione dalla storia e dal fare da sé; anche se si lavora con scenari storici. Non conosce neppure il mistero, perché in essa tutto viene chiarito e deve essere chiarito. Per­ciò anche lo sviluppo e la partecipazione le sono altrettanto estranee quanto l’ubbidienza, cui si dischiude un senso che è più grande di quan­to può essere spiegato.

Al posto di tutto ciò si colloca ora la creatività in cui l’autonomia dell’emancipato tenta addirittura di confermarsi. Una tale creatività che vorrebbe essere la messa in atto di autonomia ed emancipazione, proprio per questo contrasta nettamente con ogni partecipazione. I suoi segni distintivi sono l’arbitrio quale forma necessaria di rifiuto di ogni forma o norma esistente: l’irripetibilità, perché la ripetizione sarebbe già dipendenza; l’artificialità, perché deve ben trattarsi di pura creazione dell’uomo. Così però diviene manifesto che la creatività umana, che non vuole essere né ricevere né partecipare, nella sua essenza è assurda e falsa, perché l’uomo unicamente ricevendo e partecipando può essere se stesso. Tale creatività è fuga dalla conditio umana e perciò falsità. Per questo motivo inizia la decadenza della cultura là dove, con la perdita di fede in Dio, deve essere contestata anche una ragionevolezza che ci precede, inerente dall’essere.

 

Conseguenze

Riassumiamo quanto abbiamo finora acquisito, per poter poi tirare le conseguenze per il punto di partenza e per la forma fondamentale del­la musica da Chiesa. Si è visto che il primato del gruppo viene da una comprensione della Chiesa quale istituzione, basata su una idea di libertà ch­e non si presta ad essere collegata con l’idea e con la realtà dell’isti­tuzione e che non è più in grado di percepire la dimensione del mistero nella realtà della Chiesa. La libertà viene compresa a partire dalle idee guida di autonomia e di emancipazione. E si concretizza nell’idea della creatività, che su questo sfondo si pone in un contrasto netto con quel­la oggettività e positività che sono essenziali della liturgia ecclesiale. Il gruppo deve ogni volta inventarsi ex novo, soltanto allora è libero. Abbiam­o pure visto che a ciò è radicalmente opposta la liturgia, che merita ­questo nome. Essa sta contro l’arbitrio astorico, che non conosce alcuno sviluppo, camminando perciò nel vuoto; sta contro una irripetibi­lità che è anche esclusivismo e perdita di comunicazione al di là di ogni raggruppamento; non sta contro la tecnologia, bensì contro l’artificiosi­tà in cui l’uomo si crea il suo contro-mondo perdendo di vista e dal cuo­re il creato di Dio. I contrasti sono chiari; nel suo punto di partenza è anche chiara la motivazione intrinseca del modo di pensare del gruppo, dettato da un’idea di libertà compresa in modo autonomistico. Ora pe­rò dobbiamo interrogarci positivamente circa la concezione antropolo­gica su cui si basa la liturgia nel senso della fede della Chiesa.

 

3. Il modello antropologico della Liturgia Ecclesiale

Due parole della Scrittura si presentano quali chiavi per rispondere alla nostra domanda. Paolo ha coniato il termine Loghiché latreia (Rom 12, 1), che si può difficilmente rendere in una delle nostre lingue moder­ne perché vi manca un equivalente reale del termine Logos. «Servizio liturgico determinato dallo Spirito» potremmo dire, rimandando pure alle parole di Gesù relative all’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma si potrebbe anche tradurre «venerazione di Dio plasmata dalla Pa­rola», e in tal caso è naturale che il termine «Parola» nella sua accezione ­biblica (e anche del mondo greco) è più del semplice linguaggio: è una realtà creatrice. E tuttavia è anche più di una semplice idea e di mero spirito: è lo Spirito che si esprime, che si comunica. Da que­sta realtà di fondo in ogni epoca sono stati derivati, quali principi prelimina­ri, il riferimento alla Parola, la razionalità, la comprensibilità e la sobrietà della liturgia cristiana e della musica liturgica. Sarebbe un’interpretazione restrittiva e falsa, se si volesse comprendere con ciò un rigido riferimento al testo di ogni musica liturgica e se si volesse dichia­rare la comprensibilità del testo quale suo presupposto generale. La Pa­rola, in senso biblico, è infatti più di un «testo» e la comprensione è più ampia e profonda della banale comprensibilità di quanto uno vede subito con chiarezza, di quanto si può sistemare forzatamente nella ra­zionalità più generica.

Giusto è però che la musica che serve l’adorazione «in spirito e verità» non può essere estasi ritmica, non suggestione sensuale o stor­dimento, non sentimentalismo soggettivo, non intrattenimento super­ficiale, bensì è associata a un annuncio, a un’asserzione spirituale e nel senso più nobile ragionevole. Con altre parole: è dunque giusto che dal suo intimo la musica deve fondamentalmente corrispondere a questa «Parola», anzi, deve mettersi al suo servizio.

 

Incarnazione della Parola

Con ciò siamo però già condotti ad un altro testo biblico, quello fondamentale per il problema del culto. Questo testo ci dice più preci­samente che cosa significa la «parola» e quale rapporto abbia con noi. Alludo al passo del prologo giovanneo: «E il verbo si fece carne e ven­ne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria» (Gv 1, 14). Parlando della «Parola» a cui si riferisce il servizio liturgico cristiano non si tratta in primo luogo di un testo, ma di una realtà viva: di un Dio, che è senso che si comunica e che si comunica diventando uomo egli stesso. Questa incarnazione è ora tenda sacra, punto di riferimento di ogni culto, che è un guardare la gloria di Dio e dargli onore. Queste asserzioni del prologo di Giovanni non sono però ancora tutto. Esse so­no state malintese se lette disgiunte dai discorsi di commiato in cui Ge­sù dice ai suoi: «Io vado e ritornerò da voi. Se vado, di nuovo vengo. È bene che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore» (Gv 14, 2 s; 14, 18 s; 16, 5 ss etc.). L’incarnazione è soltanto la prima parte del movimento. Essa acquista senso e diventa definitiva soltanto sulla croce e nella resurrezione: dalla croce il Signore attira tut­to a sé e porta la carne, cioè l’uomo, e tutto il mondo creato nell’eter­nità di Dio.

 

La Parola si fa musica

A questa traiettoria è sottomessa la liturgia e questo movimento è, per così dire, il testo fondamentale a cui si riferisce ogni musica liturgica, quale sua misura. La musica liturgica è una conseguenza risultan­te dall’esigenza e dalla dinamica dell’incarnazione della Parola, perché questa significa che anche tra di noi la Parola non può essere semplice parlare. Il modo centrale con cui l’incarnazione continua ad operare so­no in primo luogo certamente gli stessi segni sacramentali. Ma essi ven­gono a mancare di un contesto vitale, se non sono immersi in una liturgia che nella sua totalità segue questa espansione della Parola nella corporalità e nella sfera di tutti i nostri sensi. Da qui viene, a differenza dai tipi di culto giudaico ed islamico, il diritto, anzi, la necessità di usare delle immagini. E da qui viene anche la necessità di chiamare in causa quelle sfere più profonde del comprendere e del rispondere che si dischiudono nella musica. La fede che diventa musica è una parte del processo dell’incarnazione della Parola. Ma questo divenire musica è contemporaneamente in modo del tutto unico abbinato a quella svolta interiore dell’evento dell’incarnazione, cui poc’anzi cercavo di accenna­re: sulla croce e nella risurrezione, l’incarnazione della Parola diviene carne fattasi Parola. Ambedue si compenetrano. L’incarnazione non vie­ne ritratta, diventa definitiva soltanto nel momento in cui il movi­mento, per così dire, si inverte: La carne stessa viene «fatta logos», ma proprio questo divenir Parola della carne crea una nuova unità di tutta la realtà, cui Dio evidentemente teneva talmente da pagarla con la cro­ce del Figlio. Il divenir musica della Parola è da un lato incarnazione, un trarre a sé forze prerazionali e metarazionali, che vengono anche rese sensibili, il trarre a sé il suono nascosto del creato, lo scoprire il can­to che riposa sul fondo delle cose. Ma così questo stesso divenire mu­sica è anche già la svolta nel movimento: non è soltanto incarnazione della Parola, ma nello stesso tempo spiritualizzazione della carne. Il le­gno e il metallo diventano suono, l’inconscio e l’insoluto diviene sonorità ordinata piena di significato. Si alternano una corporeizzazione che è spiritualizzazione e una spiritualizzazione che è corporeizzazione. La corporeizzazione cristiana è sempre anche spiritualizzazione e la spiri­tualizzazione cristiana è corporeizzazione che penetra nel corpo del logos incarnato.

 

4. Le conseguenze per la musica liturgica

 


a) Considerazioni fondamentali

In quanto nella musica avviene questa coincidenza dei due movi­menti, essa serve in misura ottimale e in maniera insostituibile a quell’esodo interiore che la liturgia vuole sempre essere e divenire. Ciò pe­rò significa che la conformità della musica liturgica si misura in base alla sua corrispondenza intrinseca a questa forma-base antropologica e teologica. Una tale asserzione a tutta prima sembra essere ben lonta­na dalla concreta realtà musicale, ma diventa concreta immediatamente se prestiamo attenzione ai diversi modelli di musica cultuale cui prima ho già brevemente accennato. Pensiamo un momento al tipo di religio­ne dionisiaca e alla sua musica che Platone ha esaminato nell’ottica del­la sua religione e filosofia. In non poche forme religiose la musica è ab­binata all’ebbrezza, all’estasi. Il superamento del limite della condizione umana cui è indirizzata la fame dell’infinito insita nell’uomo, deve es­sere raggiunta per mezzo di frenesia sacra, di delirio del ritmo e degli strumenti. Una musica simile abbatte le barriere dell’individualità e del­la personalità; l’uomo si libera così dal peso della coscienza. La musi­ca diviene estasi, liberazione dall’Io, unificazione coll’universo.

Oggi sperimentiamo il ritorno profanizzato di questo modello nella musica Rock e Pop, i cui festival sono un anticulto nella stessa dire­zione - smania di distruzione, abolizione delle barriere del quotidiano e illusione di redenzione nella liberazione dall’Io, nell’estasi furiosa del rumore e della massa. Si tratta di pratiche redentive simili alla droga nella loro forma di redenzione e fondamentalmente opposte alla conce­zione di redenzione della fede cristiana. Di conseguenza perciò dilagano oggi sempre di più, in questo ambito, culti e musiche satanistiche il cui potere pericoloso, in quanto volutamente tendente alla distruzione e al disfacimento della persona, non è preso ancora abbastanza sul serio. La disputa che Platone ha condotto tra la musica dionisiaca e quella apolli­nea non è la nostra, poiché Apollo non è Cristo. Ma la questione che egli ha posto ci tocca molto da vicino. In una forma che la generazione a noi precedente non poteva neppure immaginare la musica è diventata oggi il veicolo determinante di una controreligione e pertanto il palco­scenico della divisione degli spiriti. Cercando la salvezza mediante la li­berazione dalla personalità e dalla sua responsabilità, la musica Rock da un lato si inserisce perfettamente nelle idee di libertà anarchiche che oggi in occidente dominano più che non in oriente; ma proprio per que­sto si oppone radicalmente alla concezione cristiana della redenzione e della libertà, è anzi la sua perfetta contraddizione. Perciò non per mo­tivi estetici, non per ostinazione restaurativa, non per immobilismo sto­rico, bensì per motivi antropologici di fondo, questo tipo di musica de­ve essere esclusa dalla Chiesa.

Potremmo concretizzare ulteriormente la nostra questione, se con­tinuassimo ad analizzare la base antropologica di vari tipi di musica.

Abbiamo della musica d’agitazione che anima l’uomo in vista di vari fi­ni collettivi. Esiste della musica sensuale, che introduce l’uomo nella sfera erotica oppure tende in altra maniera essenzialmente a sensazioni di piacere sensibili. Esiste della semplice musica leggera che non vuole dire nulla, bensì rompere soltanto il peso del silenzio. Esiste della mu­sica razionalistica in cui i suoni servono soltanto a delle costruzioni ra­zionali, ma non avviene una penetrazione reale dello spirito e dei sensi. Parecchi canti inconsistenti su testi catechetici, parecchi canti moderni costruiti in commissioni, sarebbero probabilmente da classificare in questo settore.

La musica invece adeguata alla liturgia di Colui che si è incarnato ed è stato elevato sulla croce, vive in forza di un’altra sintesi molto più grande e ampia di spirito, intuizione e suono. Si può dire che la musica occidentale dal canto gregoriano attraverso la musica delle cattedrali e la grande polifonia, la musica del rinascimento e del barocco fino a Bruckner e oltre proviene dalla ricchezza intrinseca di questa sintesi e l’ha sviluppata in un grande numero di possibilità. Questa grandezza esiste soltanto qui, perché poteva nascere soltanto dal fondamento antropologico che collegava elementi spirituali e profani in un’ultima unità umana. Essa si dissolve nella misura in cui svanisce tale antropologia. La grandezza di questa musica rappresenta per me la verifica più immediata e più evidente dell’immagine cristiana dell’uomo e della concezione cristiana della redenzione, che la storia ci offre. Colui che da essa è realmente colpito, sa in qualche modo, dal suo intimo, che la fede è vera, pur dovendo fare ancora molti passi per completare questa intuizione a livello razionale e volitivo.

Ciò significa che la musica liturgica della Chiesa deve soggiacere a quell’integrazione dell’essere umano, che ci si presenta nella realtà di fede dell’incarnazione. Questa redenzione richiede più fatica che non quel­la dell’ebbrezza. Ma questa fatica è lo sforzo della verità stessa. Da un lato deve integrare i sensi nell’intimo dello spirito, deve corrispondere all’impulso del Sursum corda. Non vuole, tuttavia, la pura spiritualizza­zione, bensì l’integrazione di sensi e spirito, di modo che ambedue insie­me diventino la persona. Lo spirito non si avvilisce ricevendo in sé i sen­si, bensì soltanto questa unione gli apporta tutta la ricchezza del crea­to. E i sensi non vengono privati della loro realtà, se vi penetra lo spi­rito, bensì soltanto in questo modo possono partecipare alla sua di­mensione di infinito. Ogni piacere sensuale è strettamente limitato e, in ultima analisi, non suscettibile di accrescimento, perché l’atto dei sensi non può oltrepassare una determinata misura. Colui che da esso si aspetta la redenzione, viene deluso, «frustrato» - come si direbbe oggi. Ma essendo integrati nello spirito, i sensi acquistano una nuova profondità e penetrano nell’infinito dell’avventura spirituale. Là solo es­si si realizzano totalmente. Ciò però presuppone che anche lo spirito non rimanga chiuso. La musica della fede cerca nel Sursurn corda l’in­tegrazione dell’uomo, ma non trova questa integrazione in se stessa, bensì soltanto nell’autosuperamento, nell’intimo della Parola incarnata. La musica sacrale, ancorata in questa struttura di movimento, diventa purificazione dell’uomo, la sua ascensione. Non dobbiamo però dimen­ticare che questa musica non è l’opera di un momento, bensì partecipa­zione a una storia e suppone la comunione dal singolo individuo con le intuizioni fondamentali di questa storia. Così si esprime proprio in es­sa anche l’ingresso nella storia della fede, l’essere tutti membra del cor­po di Cristo. Dietro di sé lascia gioia, una modalità più alta di estasi, che non cancella la persona, bensì la unisce e nello stesso tempo la libera. Ci fa presentire ciò che è la libertà, che non distrugge, bensì rac­coglie e purifica.

 

b) Rilievi sulla situazione attuale

Al musico ora si presenta naturalmente un problema: Come si ot­tiene questo? In fondo, le grandi opere della musica sacra possono sem­pre soltanto essere donate, perché vi è in gioco quel superamento di se stessi di cui l’uomo da solo non è capace, mentre il delirio dei sensi, grazie ai noti meccanismi dell’ebbrezza, si può produrre. Il fare finisce dove inizia ciò che è veramente grande. È questa linea di demarcazio­ne che per prima dobbiamo vedere e riconoscere. Pertanto all’inizio del­la grande musica sacrale sta necessariamente il tremore, l’accettazione, l’umiltà che è disposta a servire nella partecipazione a ciò che di grande è già stato. Soltanto colui che almeno fondamentalmente vive in base alla struttura interiore di questa immagine di uomo, è in grado di crea­re anche la musica ad essa pertinente.

La Chiesa ha dato altre due indicazioni. La musica liturgica deve, nel suo carattere intimo, corrispondere alle esigenze dei grandi testi li­turgici: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Ciò non vuoi dire che debba essere soltanto musica per un testo; già l’ho detto. Ma essa tro­va nell’orientamento interno di questi testi una indicazione per la sua propria espressione. La seconda indicazione è il rimando al canto gre­goriano e a Palestrina. Questo rimando non significa però che tutta la musica della Chiesa debba essere imitazione di questa musica. Su que­sto punto, di fatto, vi sono state interpretazioni anguste nel rinnova­mento della musica sacra nel secolo scorso, e anche nei documenti pon­tifici basati su di esso. Interpretando in modo giusto, si vuole così sem­plicemente dire che sono dati degli esempi che possono servire da orien­tamento. Non si può però stabilire in precedenza ciò che può nascere dall’assimilazione creativa di un tale orientamento.

Rimane ancora aperta questa domanda: possiamo, parlando uma­namente, attenderci in questo campo ancora nuove possibilità creative? E in che modo ciò potrà avvenire? La risposta alla prima domanda è facile; cioè se questa immagine dell’uomo è inesauribile, al contrario di quell’altra, essa apre sempre delle nuove possibilità, anche all’espres­sione artistica, e ciò tanto più quanto più vivamente determina lo spi­rito di un’epoca.

Ma proprio qui sta la difficoltà per la seconda questione. Nel nostro tempo la fede ha perduto molta della sua capacità di dare un’impronta alla realtà della vita pubblica. Come potrà essere creativa? Non è stata emarginata dappertutto come semplice sottocultura? Non di meno oc­corre dire che, almeno a quanto sembra, in Africa, in Asia e nell’Ame­rica Latina ci troviamo davanti a una nuova fioritura della fede, da cui potrebbero anche scaturire nuove forme di cultura.

Ma anche nel mondo occidentale il discorso della sottocultura non dovrebbe farci paura. Nella crisi culturale che viviamo, una nuova pu­rificazione e unificazione culturale può svilupparsi soltanto da isole di raccoglimento spirituale. Là ove in comunità vive vi sono nuovi risvegli della fede, si vede anche già formarsi una nuova cultura cristiana; si vede come l’esperienza comunitaria sia fonte di ispirazione e apra vie che prima non potevamo vedere. Del resto, F. Doppelbauer ha giusta­mente fatto notare che la musica liturgica ha spesso e non a caso il ca­rattere dell’opera tardiva, presuppone maturazioni precedenti. Inoltre è importante che ci siano gli spazi preliminari della religiosità popolare e della sua musica, come della musica religiosa in senso lato, che devo­no essere sempre in fecondo scambio con la musica liturgica. Da un la­to esse vengono fecondate e purificate da questa, ma dall’altro lato pre­parano anche nuovi tipi di musica liturgica. Dalle loro forme più libere potrà maturare ciò che potrà entrare nel patrimonio della liturgia di tutta la Chiesa. Questo è poi anche l’ambito ove il gruppo può cimen­tare la sua creatività, nella speranza che ne nasca ciò che in futuro po­trà fare parte del tutto.

 

Osservazione conclusiva: liturgia, musica e cosmo

Vorrei concludere le mie considerazioni con una bella parola di Mahatma Gandhi che ho trovato poco tempo fa su un calendario. Gan­dhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di que­sti tre spazi vitali offra anche un proprio modo di essere. Nel mare vivo­no i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L’uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l’altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gri­dare e il cantare. Oggi vediamo che all’uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltan­to terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli re­stituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, apren­dogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l’essere dell’an­gelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo quel canto che in lui si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera litur­gia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall’agire comune e ci restituisce la profondità e l’altezza, il silenzio e il canto. La vera litur­gia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Es­sa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell’universo in at­tesa. E così essa redime la terra.

Joseph Card. Ratzinger