L’APOSTOLO GIACOMO CI RICORDA
13 agosto 2023, XIX DOMENICA PER ANNUM A
(1Re 19,9a.11-13a; Sl 85/84; Rm 9,1-5; Mt 14,22-33)

 

Dopo il fuoco, ci fu la voce di un silenzio sottile (1Re 19,12)

 

L’apostolo Giacomo ci ricorda che Elia era un uomo come noi, della nostra stessa natura (Gc 5,17).
Sarebbe morto se un corvo ogni sera non gli avesse portato da mangiare (1Re 17,4-6) e, forse, anche se non avesse incontrato la vedova di Sarepta che gli consegnò il suo ultimo pasto (1Re 17,8-16).
Un giorno arrivò a desiderarla, la morte, steso sotto la precaria ombra di una ginestra nel deserto. Sopravvisse perché un angelo gli portò una focaccia e un orcio d’acqua e gli disse per due volte: Su, alzati e mangia! (1Re 19,5-8), come si fa con un bambino.
O con un malato.

 

E malato Elia, il profeta di fuoco, uomo da un dinamismo fuori del comune, lo era veramente.
Forse era malato di depressione, o forse (una cosa non esclude l’altra) di superbia.

 

Rabbi Moshè Maimonide, detto Rambam, insegna che nessuna qualità morale è di per sé negativa o positiva, eccetto una. Solo una è sempre negativa ed è la superbia.
E per curarla c’è una sola medicina.
L’umiltà, virtù necessaria per attraversare un deserto.
Il cammino di quaranta giorni nel deserto guarì (almeno in parte) Elia dalla superbia e gli servì per purificare l’immagine che aveva di sé e l’immagine che si era fatta di Dio.

 

Come Elia, anche Mosè, quattro secoli prima, si era rivolto a Signore dicendogli di non essere migliore dei suoi padri (1Re 19,4).
Io non posso – disse – da solo portare il peso di tutto questo popolo. Se mi devi trattare così fammi morire piuttosto, fammi morire (Nm 11,14-15).
Lo sfogo di Mosè è di un uomo di fede che parla con Dio, e che sa fin dall’inizio che la missione che gli è stata affidata è troppo pesante per lui, ma sa anche di non potersene sottrarre. Come insegna rabbi Tarfon: Non spetta a te completare l’opera, ma non sei neppure libero di sottrartene (Avot 2,19).

 

Invece la depressione di Elia nasce dal fallimento sperimentato da un uomo troppo pieno di sé e di zelo religioso, un uomo che pensava con le sue forze di riuscire a liberare il mondo dal male: Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza… Sono rimasto solo (1Re 19,9-10.13-14).
Il suo zelo eccessivo lo fece ammalare e per guarire e ri-trovare il Signore, Elia doveva perdere la sua qualità di uomo troppo religioso (Dietrich Bonhoeffer).

 

Come Mosè, Elia attraversò il deserto.
Come lui giunse alla stessa montagna, l’Oreb/Sinai, ed entrò nella stessa caverna.
All’ingresso di quella caverna entrambi incontrarono il Signore.
Per tutti e due il Signore passò (Es 34,6; 1Re 19,11).

 

Il Dio di Israele è sempre il Dio che passa.

 

Quando gli apostoli dalla barca in balia della tempesta videro Gesù che andava loro incontro camminando sul mare sul finire della notte, credevano di vedere un fantasma.
Invece era il Signore che passava.
Gesù parlò in mezzo alla tempesta: Coraggio, sono io, non temete!
Poi, quando salì sulla barca, la tempesta cessò e scese il silenzio.
Il Signore non era nel vento, non era nella tempesta.
Immersi in quell’improvviso silenzio, come Elia nella caverna, anche i discepoli si prostrarono davanti a Gesù dicendo: Davvero tu sei Figlio di Dio.

 

Sul Sinai il Signore aveva parlato a Mosè e al popolo con voce potente di tuono (Es 19,16) in mezzo del fuoco, alla nube e all’oscurità. Non aggiunse altro… (Dt 5,22).
Rashì fa notare che il verbo può essere tradotto anche non smise.
Il Dio d’Israele, il Dio che passa, è il Dio che non aggiunge altro a quello che ha detto, ma è anche il Dio che non smette di parlare.
Dio ha smesso di parlare, ma ha anche continuato a parlare. Parla ed è anche silenzioso (Benedetto Carucci Viterbi).

 

Sul Carmelo il Signore aveva fatto scendere un fuoco dal cielo che aveva bruciato la catasta di legna che Elia aveva preparato (1Re 18,38).

 

Ma il Dio che Elia incontrò sull’Oreb all’ingresso della caverna non era nel vento, non era nel terremoto e non era nel fuoco.

 

Il Dio che passa e si fa sentire in una voce di silenzio sottile viene dopo i tuoni del Sinai e il fuoco del Carmelo.
Il testo non dice che il Signore era in quel silenzio ma Elia avvertì immediatamente la Sua presenza.
Si coprì il volto e s’inchinò davanti a un Dio che non aveva ancora conosciuto, il Dio silenzioso che passa, che è sempre oltre, sempre altrove.
Del Santo Benedetto si possono vedere solo le spalle (Es 33,23) e si possono riconoscere i luoghi in cui non è più.
Alla fine del suo cammino nel deserto Elia depose il suo zelo, frutto di una superbia che l’aveva portato alla depressione.
Non doveva più sforzarsi di andare incontro al Signore.
Se voleva percepire quella voce di silenzio sottile, doveva imparare a rimanere in silenzio.

 

Quando Gesù fu crocefisso, verso mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra.
Il grido di Gesù provocò un vento impetuoso che squarciò in due il velo del tempio da cima a fondo. La terrà tremò, le rocce si spezzarono e i sepolcri si aprirono (Mt 27,45-52).

 

Ma il centurione che stava sotto la croce non fu attratto dal buio, né dal vento, né dal terremoto. Quando il silenzio scese sul Golgota e Gesù, chinato il capo, emise lo spirito (Mt 27,50) egli si coprì il volto e si prostrò davanti a quell’Uomo privo di vita e pieno di Vita che gli parlò con voce di silenzio sottile.
Immerso in quel silenzio, il centurione professò la sua fede con le stesse parole che avevano pronunciato i discepoli sulla barca, dopo la tempesta.
Davvero costui era il Figlio di Dio (Mt 27,46).

 

La sinfonia ebraica non sta solo negli accordi suonati forte, ma vibra anche per mezzo delle sordine. Come la Parola che un giorno il profeta Elia sentì non per mezzo dell’uragano sonoro, ma dell’organo più tenue della voce, il pianissimo del silenzio.
(Andrè Neher, Chiavi per l’ebraismo)