IL CAPITOLO DICIOTTO
10 settembre 2023, XXIII DOMENICA PER ANNUM A
(Ez 33,1.7-9; Sl 95/94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20)

 

Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te… (Mt 18,15)

 

Il capitolo diciotto dell’evangelo di Matteo si apre con una domanda: Chi è il più grande nel regno dei cieli? (Mt 18,1). Il versetto che chiude il capitolo e il discorso di Gesù sulla vita comunitaria, dà la risposta: Il più grande nel regno dei cieli è colui che perdona di cuore al proprio fratello (Mt 18,35).

 

Ma il perdono non è un atto di buona volontà, immediato e istintivo, è un cammino, spesso lungo e doloroso. Non è un punto di partenza, ma una meta da raggiungere che, a volte, si raggiunge solo come desiderio.

 

Il primo passo di questo lungo cammino è un processo di de-idealizzazione della comunità cristiana. La chiesa non è una società perfetta, come dimostra il piccolo gruppo degli apostoli che Gesù aveva scelto e chiamato e che non avevano un cuore solo e un’anima sola (At 4,32).

 

Quando Giacomo e Giovanni, scavalcando il gruppo, pretesero che Gesù li facesse sedere uno alla destra e l’altro alla sinistra, gli altri dieci si sdegnarono con i due fratelli.
Da una parte la pretesa, e dall’altra lo sdegno che mascherava l’invidia dietro una facciata di amore per la giustizia (Mt 20,24).

 

Quando Giuda Iscariota espresse il suo disappunto nei confronti di Maria per lo spreco di trecento grammi di un profumo assai prezioso, Gesù lo rimproverò.
Giuda nasconde la sua avidità, dietro il velo della premura per i poveri (Gv 12,3-6).

 

Quando Gesù fu arrestato, nei discepoli la paura di perdere la propria vita prevalse sull’amore per il Maestro e tutti lo abbandonarono e fuggirono (Mt 26,56).

 

Nel suo secondo libro, l’evangelista Luca, dopo avere descritto la vita della prima comunità cristiana, dove ognuno condivideva con gli altri quello che aveva (At 4, 32-35), racconta la storia di Anania e Saffira.
La coppia aveva venduto un campo e volle donare il ricavato agli apostoli.
Dissero a Pietro: Ecco l’intera somma. In realtà i due avevano trattenuto una parte per sé.
Potevano farlo, bastava essere onesti e dirlo. Pagarono con la vita la menzogna e il morboso attaccamento al denaro e alla propria immagine (At 5,1-11).

 

Anche le colonne della chiesa, i santi Pietro e Paolo, entrarono in conflitto.

 

Ad Antiochia Paolo si oppose a Pietro a viso aperto, perché evidentemente aveva torto e, senza mezzi termini, gli diede dell’ipocrita (Gal 2,11).
Di preciso non sappiamo come andò a finire, ma Luca, l’autore del libro degli Atti, che in genere tende a sfumare i contrasti all’interno della comunità, dice apertamente che il dissenso fu tale che provocò una frattura anche tra Barnaba e Paolo.
Dopo questi fatti Pietro tornò a Gerusalemme.
Barnaba prese con sé Marco che Paolo non voleva più con sé e s’imbarcò per Cipro.
Paolo scelse Sila e partì per la Siria e la Cilicia (At 15,39-41).

 

La comunità cristiana e composta di uomini e donne e, come tutto ciò che ha a che fare con l’umano, non è esente da conflitti, a volte insanabili.

 

In questi casi, invece di cercare a tutti i costi una pace impossibile, è più saggio cercare un possibile compromesso o prendere strade diverse.
Come accadde nella lite per i pascoli tra i mandriani di Abramo e quelli di Lot, suo nipote.
Pur di non litigare Abramo propose a Lot di prendere strade diverse: Se tu andrai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra (Gen 13,2-9).

 

Il perdono è un percorso complicato, dall’esito non sempre positivo.
Gesù stesso lo riconosce quando dice ai discepoli come comportarsi nel caso che il tuo fratello commetta una colpa contro di te?
Anzitutto prova ad andargli incontro senza aspettare scuse o risarcimenti, tenta di mettere in atto l’esercizio paziente del dialogo che miri a guadagnare il fratello, non a perderlo, perché Dio non vuole la morte dell’empio, ma che si converta dalla sua condotta, e viva (Ez 33,11).

 

Il desiderio del Padre è che non si perda neanche uno di questi piccoli (Mt 18,14), ma il Padre non può costringere nessuno a non perdersi.
Se l’ostinazione del peccatore rende inutili gli sforzi messi in atto da chi ha subito la colpa e dalla stessa comunità, allora, e solo allora, egli diventi per te come un pagano e un pubblicano.
Una parola dura e piena di speranza che non tende a condannare il fratello al fuoco dell’inferno (cosa che non compete a noi), ma ad affidarlo a Gesù, amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt 9,9-13) che è venuto a cercare e a salvare chi era perduto (Mt 18,12).

 

Ma c’è un’azione che il discepolo può (e deve) continuare a compiere, anche dopo che ha abbandonato a Gesù il fratello che ha commesso la colpa: la preghiera.
Perché ciò è impossibile agli uomini, è possibile a Dio (Gen 18,14; Lc 1,37).
Ma la preghiera non è una formula magica e niente e nessuno può obbligare Dio a rispondere. E tuttavia prego… (Andrè Neher).
Anche se le nostre preghiere non vengono esaudite, tuttavia prego.
E la sola preghiera che l’uomo religioso abbia il diritto di rivolgere a Dio, quando si trova davanti al suo avversario, è che Dio faccia germinare il bene nell’animo di questo avversario, e che, con il capovolgimento operato dal pentimento, il male si trasformi in bene (Andrè Neher).

 

Questa è la preghiera che Gesù ha rivolto al Padre dalla croce, davanti ai suoi avversari: Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).

 

Per questa preghiera del Figlio, anche noi suoi figli, perdonati per la nostra ignoranza, possiamo intraprendere la via complicata del perdono. Possiamo sperare che, prima della conversione del fratello che ha commesso una colpa contro di noi, avvenga in noi un capovolgimento operato dal pentimento e che anche in noi il male si trasformi in bene.

 


Tale è la lezione data a Rabbi Meir da sua moglie Valeria: egli si preparava a pregare per l’eliminazione dei suoi empi vicini, quando la sua sposa, ricordando che il versetto del salmo (104,35) evoca la perdizione dell’empietà e non degli empi, gli raccomandò di pregare perché gli empi, sbarazzandosi della loro empietà, tornassero alla vita.
(Andrè Neher, Il pozzo dell’esilio)