PERDONARE
17 settembre 2023, XXIV DOMENICA PER ANNUM A
(Sir 27,33 – 28,8 (NV) 27,30 – 28,7 (gr.); Sl 103/102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35)
Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi (Mt 18,23)
Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi…
Simile – dice Gesù – non perfettamente identico.
Il re che volle regolare i conti con i suoi servi, è simile a Dio ma Dio non è come il re.
Il re della parabola, come Dio, prova compassione per quel servo disperato e cancella il suo debito, senza pretendere nulla in cambio.
Ma, poco dopo, si comporta come un giudice umano, severo e giusto, e non come un padre misericordioso che concede al figlio prodigo una seconda opportunità (Lc 15,20).
Non perdona settanta volte sette.
La questione del perdono chiude il capitolo diciotto dell’evangelo di Matteo che raccoglie le norme per la comunità che Gesù ha affidato a Pietro, la roccia.
Anche se le potenze degli inferi non prevarranno su di essa (Mt 16,18), i conflitti tra i discepoli non mancheranno nel cammino verso la patria del cielo.
Pietro, ritenendosi generoso, propose a Gesù una dose di perdono buona ma non eccessiva, controllabile, umana, come i giorni di una settimana.
Invece Gesù, moltiplicando il sette per dieci, gli indicò ciò che non si conta, l’infinito.
Settanta volte sette è un invito a superare il limite contrapponendo alla molteplicità della colpa una moltiplicazione degli atti di misericordia, così che, come dice Paolo, dove ha abbondato il peccato, sovrabbondi la misericordia (Rom 5,21).
Ma il re della parabola sembra contraddire il comando di Gesù.
Perché non concede una seconda opportunità a quel servo malvagio e ingrato?
Anzitutto perché l’amore di Dio è la realtà più seria che esiste, con cui non si può giocare (Adrienne Von Speyr).
E poi perché il perdono non è un atto di (buona) volontà che si concede tutto e subito, ma è piuttosto un lungo e complicato cammino da compiere.
Un percorso travagliato, simile alle doglie del parto.
La tradizione biblica chiama conversione (teshuvah) questo travaglio.
Nelle parole severe del re che dà in mano agli aguzzini il servo malvagio, c’è un piccolo termine, una chiave che un giorno aprirà le porte della cella: finché.
La congiunzione fino a che parla di un limite, non di una condanna definitiva, ammette una scadenza: finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Rivelando il Suo Nome a Mosè sul Sinai, Dio aveva detto che la Sua misericordia dura per mille generazioni, mentre il castigo è limitato e non va oltre alla terza e alla quarta generazione (Es 34,5-7).
Fino a che… La punizione dura precisamente tanto a lungo fino a che il debito non si estinto. Quella del servo spietato è una sofferenza finalizzata e limitata nel tempo.
Ovviamente l’uomo non riuscirà a restituire al re i diecimila talenti che gli deve, ma avrà tutto il tempo necessario per trasformare il suo cuore di pietra fino a che diventi un cuore di carne (Ez 36,26), e questo al Padre che è nei cieli basterà.
E quando il suo cuore di carne gli rivelerà con dolore il suo meschino senso di giustizia, e con gratitudine l’infinita misericordia del Signore, anch’egli sarà in grado di perdonare al proprio fratello.
L’incontro con la misericordia del Signore rende possibile la misericordia tra i fratelli.
L’evangelo è una buona notizia perché racconta storie di misericordia, come quella accaduta a Zaccheo il capo dei pubblicani di Gerico (Lc 19,1-10).
Un uomo piccolo di statura e di cuore, che aveva accumulato ricchezze, senza guardare in faccia a nessuno.
L’incontro con il Signore Gesù innescò in lui un processo di conversione.
Quel breve tratto di strada tra il sicomoro e la sua casa, fu il primo passo di un lungo cammino che l’avrebbe portato a liberarsi dei suoi beni.
L’infinita ricchezza della salvezza portata da Gesù in casa sua, non era paragonabile alla miseria di una ricchezza accumulata a danno di altri.
Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
Simile, ma non identico.
E il re della parabola, tanto misericordioso quanto giusto, non è precisamente come il Padre che Gesù ci ha rivelato.
Pietro, la roccia sulla quale il Signore ha fondato la sua chiesa, il discepolo che aveva posto a Gesù la domanda sua perdono, lo comprese, con dolore, quando Gesù fu arrestato.
Poche ore prima, aveva fatto pubbliche promesse di eterna fedeltà al Signore.
Anche se dovessi morire con te – aveva detto – io non ti rinnegherò (Mt 26,35).
Qualche ora dopo, nel cortile della casa del sommo sacerdote, Simon Pietro, la roccia, il discepolo disposto a perdonare fino a sette volte, che aveva promesso di non rinnegare il Signore, a qualsiasi costo, lo rinnegò tre volte davanti a delle innocue serve.
L’evangelo di Matteo non parla di uno sguardo di Gesù, ma solo delle lacrime di Pietro.
Quel pianto è il segno di un nuovo inizio (Mt 27,69-75).
La ferita per quel tradimento non si sarebbe mai rimarginata e avrebbe provocato in Pietro un profondo dolore.
Era il prezzo da pagare per la colpa commessa, ma la misericordia del Signore supera infinitamente il peccato dell’uomo.
Solo Dio può perdonare i peccati (Mc 2,7), solo Dio può perdonare settanta volte sette.
Il discepolo che ha fatto esperienza della misericordia di Dio, per sua grazia, può iniziare un cammino che lo aiuterà a perdonare il fratello.
I maestri insegnano che due sono le condizioni indispensabili che rendono possibile una conversione. Anzitutto la possibilità di cambiare. E poi l’idea che il Bene precede il male, che Dio è più forte del male (Catherine Chalier).
Il settanta volte sette è un numero che non va preso alla lettera, ma che Gesù ha preso letteralmente sul serio quando, dalla croce, chiese al Padre che sembrava averlo abbandonato (Mt 27,46) di non abbandonare gli uomini al loro destino e di perdonarli perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
Colui che rifà la propria anima, rifà l’anima del mondo.
(Andrè Neher)