LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME
1° ottobre 2023, XXVI DOMENICA PER ANNUM A
(Ez 18,25-28; Sl 25/24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32)
Ma poi pentitosi vi andò… (Mt 21,29)
La distruzione di Gerusalemme e del Tempio e la conseguente deportazione del popolo modificarono i rapporti di Israele con il suo Dio. In terra d’esilio, senza un luogo per presentargli le primizie e senza mediatori, i figli di Israele si sentivano soli.
A Babilonia c’è solo un profeta, Ezechiele, che Dio costringe alla solitudine e al silenzio.
Quando morì sua moglie, colei che era la luce dei suoi occhi, Dio gli ordinò di non piangere, non fare lutto per lei e di limitarsi a sospirare in silenzio (Ez 24,15-17).
Gli esuli lo guardavano con sospetto e si tenevano a distanza.
Un profeta solo e silenzioso è il messaggio che Dio manda al suo popolo (Ez 24,24).
Un giorno lo Spirito tornerà a soffiare sulle ossa inaridite e metterà su di esse i nervi e farà ricrescere la carne, stenderà la pelle e infonderà lo spirito per far rivivere ciò che sembrava perduto per sempre. Un giorno il Signore avrebbe riaperto i loro sepolcri e avrebbe ricondotto il suo popolo nella terra di Israele (Ez 27,1-14).
Un giorno…
Ma, nel frattempo, a Babilonia i figli di Israele sono diventati più piccoli di ogni altra nazione; non hanno più né principe, né profeta, né capo né luogo per presentare le primizie e trovare misericordia (Dn 3,37-38).
Ma l’Alleanza non conosce confini e il patto tra Dio e il suo popolo non è finito sotto le macerie. Com’è scritto nel libro del Deuteronomio, Egli continua a porre davanti a ognuno la vita e il bene, la morte e il male, la benedizione e la maledizione (Dt 30,15-20).
La terra d’esilio diviene la terra della responsabilità, dove ognuno è solo davanti a Dio e, davanti a Lui, è chiamato alla responsabilità, a rispondere delle proprie azioni.
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli è responsabile della sua morte. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità e compie ciò che è retto e giusto, egli certo vivrà e non morirà.
Ognuno avrà la benedizione della vita o la maledizione della morte in base al proprio comportamento.
Come nella parabola dei due figli che il padre manda a lavorare nella vigna.
Non è l’appartenenza a una famiglia o un popolo o a una chiesa che garantisce la vita e la benedizione, ma la risposta che ciascuno dà all’invito del padre.
Risposta che non è mai definitiva perché rimane sempre la possibilità di ricredersi.
Nel regno dei cieli entra chi fa la volontà del Padre che è nei cieli, non chi si limita a dire: Signore, Signore!
In quel giorno molti mi diranno: Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E non abbiamo scacciato demoni e compiuto molti prodigi nel tuo nome? Ma io allora io dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità (Mt 7,21-23).
Malachia, l’ultimo profeta biblico, aveva chiuso il suo piccolo libro annunciando il ritorno del profeta Elia: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio (Ml 3,23-24).
Per cinque secoli il popolo ha atteso quell’Elia, ma quando è venuto sulla via della giustizia i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non l’hanno riconosciuto; anzi hanno fatto di Giovanni quello che hanno voluto (Mt 17,12-13).
Invece i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto, si sono pentiti della loro condotta malvagia e hanno ritrovato la vita e la benedizione.
Il loro No che diventa Sì non è un atto esteriore, ma un cambiamento profondo, è una ri-nascita, un re-inizio. Chi fa teshuvah (si converte) opera un cambiamento in se stesso e, nello stesso tempo, riscrive la storia.
Ci troviamo di fronte alla creazione di un nuovo mondo dopo la colpa. Come un bicchiere rotto che si riaggiusta ma che diviene un altro bicchiere (Roberto Della Rocca).
Anche il Dio biblico è sempre disposto a ricredersi e a pentirsi e per questo può chiedere la conversione alle sue creature.
Secondo la tradizione ebraica, Il primo Yom Kippur della storia sarebbe stato istituito quando Dio fece teshuvah, quando sul Sinai si pentì del proposito che aveva avuto di sterminare il suo popolo e diede a Mosè altre due tavole della Legge (Es 32,14).
Un uomo che si è ricreduto come il primo figlio della parabola (o come il figlio prodigo) fu il poeta tedesco di famiglia ebraica Heinrich Heine (1797-1856).
Nel 1851, nel suo giaciglio-rifugio di Montmartre a Parigi, ritrovò il Dio della sua infanzia.
Dopo avergli detto No per tanti anni alla fine gli disse Sì!
È inutile torturarmi. Sì, giuro di essere ritornato a Dio, come il Figlio prodigo… È la miseria che mi ha riportato coraggio? Forse il motivo è meno misero.
Ciò che mi ha assalito è la nostalgia del cielo.
Non è la paura dell’inferno, ma la nostalgia del cielo che mette in atto il processo che spinge il malvagio a convertirsi dalla malvagità che ha commesso per compiere ciò che è retto e giusto.
Non è l’appartenenza a un popolo o a una chiesa, né a una categoria sociale piuttosto che un’altra che garantisce la salvezza, ma la risposta che ognuno dà alla chiamata che porta alla vita e alla benedizione.
Zaccheo non è salvato perché pubblicano, ma perché ha aperto la porta della sua casa e quella del suo cuore a Gesù che passava di là (Lc 19,1-10).
La peccatrice non si è salvata in quanto donna di facili costumi, ma perché si è avvicinata a Gesù, gli ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli (Lc 7,37-38).
Il delinquente crocefisso alla destra di Gesù non è entrato in paradiso perché ladro, ma perché ha chiesto a Gesù un ricordo senza pretendere nulla in cambio (Lc 23, 40-43).
E che cosa se non la nostalgia del cielo, può aver provocato la conversione del centurione che stava sotto la croce? Vedendo Gesù che moriva, vedendo come moriva comprese che se voleva far vivere se stesso doveva inchinarsi davanti a Colui che riconobbe davvero come il Figlio di Dio (Mt 27,54).
Colui che ritorna non è l’uomo che ha il compito di trovare o ritrovare la Casa che aveva perso o che non ha mai conosciuto: ritornare è la sua legge, e il significato assoluto del suo destino si nasconde in questa marcia, nella sua indagine, nella sua ricerca, sempre messa in discussione, continuamente sottoposta ad errori, eternamente promessa a degli indomani mai compiuti.
(Andrè Neher)