I FARISEI, AVENDO UDITO CHE GESÙ
29 ottobre 2023, XXX DOMENICA PER ANNUM A
(Es 22,20-26; Sl 18/17; 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40)
Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? (Mt 22,36)
I farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, mandarono uno di loro, un dottore della Legge, per chiudere la bocca a Gesù.
Il maestro lo interrogò sul grande comandamento.
E il Signore gli rispose con due grandi comandamenti.
L’amore non è una cosa semplice come un po’ ingenuamente canta Tiziano Ferro che, altrettanto ingenuamente, pensa di dimostrarlo con le parole di una canzone.
Anche le pagine della Scrittura e lo stesso vocabolario della lingua ebraica raccontano la complessità dell’amore.
La prima parola del primo libro biblico, Genesi, è In principio, in ebraico Bereshit (Gen 1,1). La Bibbia non inizia con la prima lettera dell’alfabeto, l’alef, ma con la seconda, bet, il cui valore numerico è 2.
Tutto ciò che in principio Dio crea con il suo Unico Verbo (Gv 1,1) diventa duplice.
La Parola Unica di Dio, entrando in contatto con l’atmosfera terreste, si moltiplica all’infinito, com’è scritto nel Salmo: Una parola ha detto Dio, due ne ho udite (Sl 62/61,12).
Nella storia del popolo di Israele e nella grammatica della sua lingua anche il rapporto con gli stranieri non è una cosa semplice.
Il vocabolario della lingua l’ebraica è relativamente povero di vocaboli, ma ne troviamo (almeno) tre per definire lo straniero (zar, nekar, gher).
Due su tre hanno una connotazione neutra o negativa e indicano l’estraneo o il nemico da cui è necessario difendersi e, al limite, anche combattere come gli Amaleciti, i Moabiti e gli Ammoniti.
Invece, uno più positivo (gher) ci ricorda di non molestare il forestiero e di non opprimerlo, ricordando che su questa terra siamo tutti stranieri e niente ci appartiene per sempre.
L’amore è la più necessaria e la più complicata delle esperienze umane.
Anche il termine cuore (che nella nostra tradizione più che in quella ebraica è associato all’amore) viene scritto in due modi: leb e lebab.
Ovviamente i maestri si chiedono perché in alcuni casi si usi il termine che ripete la seconda lettera dell’alfabeto, la bet (sempre lei, guarda caso).
Il cuore umano, come la sua capacità di amare o di volere, ha almeno due facce, non è mai tutto di un pezzo. Solo quello degli idoli lo è, idoli di legno, pietra e metallo, che un cuore nemmeno ce l’hanno.
E se il Signore non sopporta gli uomini che parlano con cuore doppio (Sl 12/11,3), tuttavia sa che niente è più infido del nostro cuore e che difficilmente guarisce e solo Lui ne conosce l’abisso (Ger 17,9-10).
Noi conosciamo il travaglio e la fatica nel districarci tra i sentimenti che lo affollano.
San Paolo ha composto un inno meraviglioso sull’amore, che spesso gli sposi inseriscono (un po’ ingenuamente) nella liturgia del loro matrimonio.
L’amore è magnanimo e benevolo, non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
L’amore tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta… (1Cor 13,4-7).
Ma quando scrive all’amico Timoteo a proposito di un certo Alessandro il fabbro lo mette in guardia e gli dice di guardarsi da lui non di scusarlo, o di avere pazienza e di sopportarlo, perché – scrive – mi ha procurato molti danni (2Tm 4,14-15).
I Moabiti erano nemici di Israele e solo il re Davide riuscì ad assoggettarli (2Sam 8,2), dopo che fu sparso molto sangue da entrambe le parti. Eppure la nonna di Davide, Rut, era una moabita.
C’è un intero libro biblico su di lei e un posto di riguardo nella genealogia di Gesù (Mt 1,5).
Gesù ha parole di misericordia per i poveri e gli afflitti, i miti e i misericordiosi, i pacifici e i perseguitati (Mt 5,1-11), ma non è così gentile con scribi e farisei ipocriti che definisce razza di vipere e sepolcri imbiancati (Mt 23.13.33).
Gesù ama i discepoli che ha chiamato a servirlo, ma qualcuno nel gruppo dei Dodici è preferito agli altri: Pietro, Giacomo e Giovanni, per esempio.
A loro permise di entrare nella stanza dove dormiva la figlia del capo della sinagoga che poi risuscitò (Mc 5,37; Lc 8,51).
Davanti a loro si trasfigurò sul Tabor (Mt 17,1-2).
E sempre a loro chiese di rimanergli accanto nell’Orto degli Ulivi (Mt 26,37).
Nel quarto evangelo solo uno dei Dodici è il Discepolo che Gesù amava (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20).
Questo non significa che Gesù amasse meno gli altri nove.
Li amava in modo diverso, perché l’amore non è una cosa semplice.
Noi vorremmo amare Dio che con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente.
Ma la realtà è che lo amiamo con il nostro cuore doppio, con la nostra anima confusa, con la nostra mente distratta e con la nostra volontà limitata.
Ciò che possiamo offrire a Dio è la sincerità del nostro desiderio di amarlo.
Vorremmo amare il prossimo come noi stessi, ma anche l’amore con cui ci amiamo conosce limiti, fatiche e compromessi.
Ci può essere un pericoloso delirio di onnipotenza in chi afferma di amare tutti e sempre senza condizioni, e pretende di poter amare Dio con tutto il suo essere.
Per questo Gesù rispose al dottore della Legge che lo interrogò sul grande comandamento presentandone due, perché l’amore è una faccenda complicata.
Sul Golgota accanto a Gesù non ci fu un solo delinquente, ma due.
Uno che lo insultava e l’altro che lo pregava (Lc 23,39-43).
Esattamente come accade a noi, perché, che lo vogliamo o meno, anche il nostro cuore è doppio, e perché l’amore è tutto, eccetto una cosa semplice.
La pienezza dell’amore del prossimo consiste semplicemente nell’essere capaci di chiedergli: Che cosa ti tormenta?
(Simone Weil, Attesa di Dio)