IL PROFETA MALACHIA
5 novembre 2017, XXXI PER ANNUM A
(Ml 1,14b – 2,2b.8-10; Sl 131/130; 1Ts 2,7b-9.13; Mt 23,1-12)

 

Vi ho amati e vi amo tuttora, dice il Signore (Mal 1,2).

 

Il profeta Malachia (nome che significa mio messaggero) inizia il suo piccolo libro, l’ultimo della tradizione dei profeti scrittori, con una dichiarazione d’amore.
Vi ho amati e vi amo tuttora, dice il Signore (Mal 1,2).
Ma Israele non sa che farsene di questo amore.
Come ci hai amati? Questa è la risposta del popolo che porta il Signore in tribunale.

 

Il quinto secolo non fu un tempo particolarmente negativo.
Il tempio era stato ricostruito dopo l’esilio, una costruzione modesta ma pur sempre un luogo dove Dio poteva dimorare.
E il culto, anche se in modo piuttosto dimesso, aveva ripreso i suoi ritmi abituali con le feste e i sacrifici, i pellegrinaggi e le offerte.

 

Ma che fine avevano fatto le grandi promesse che Dio aveva fatto ad Abramo per quel popolo che doveva diventare numeroso come le stelle del cielo che non si possono contare (Gen 15,5)?
Nel tempo di Malachia non stava accadendo nulla di particolarmente negativo.
Non c’erano nemici da affrontare che infiammassero gli animi.
Nel panorama mondiale Israele passava inosservato.
La storia, quella vera sembrava essersi spostata a ovest e parlava la lingua greca, cantando le imprese degli eroi delle Termopili o di Maratona.
Dopo gli anni dell’esilio, per i figli di Israele sembrava esserci solo la banalità della vita quotidiana.
Come ci hai amati, come ci ami? – chiede allora il popolo a Dio.
Nei giorni di Malachia nessuno metteva in discussione l’esistenza di Dio, ma un popolo cinico e rassegnato lo trascinò in tribunale, chiedendogli conto della sua indifferenza.
Siamo davvero il popolo eletto con cui hai stretto un patto d’amore?
Dov’è finito questo tuo amore?
Dio si limitava a rispondere: Vi ho amati e vi amo tuttora!
La sua Parola contro la loro.
E per dimostrare quanto ami il suo popolo, invece di chiedere scusa si serve di parole dure e volgari.
Da accusato diventa accusatore.
Non attacca il popolo, la gente comune, il resto di Israele, ma chi doveva essere il canale di comunicazione tra Lui e il popolo.
I sacerdoti e i leviti sono corrotti e hanno portato il popolo alla corruzione.
Invece di riconoscerlo come il Grande Re, ne disprezzano il Nome.
Sono diventati dei funzionari del sacro senza un’anima: le loro benedizioni sono formule vuote e praticano il culto svogliatamente, come se fosse una seccatura.
Per questo il Signore spezzerà il loro braccio in modo che non possano più alzarlo per benedire e spargerà escrementi sulla loro faccia in modo da renderli impuri e repellenti (Mal 2,3).

 

Sono queste le parole che è lecito aspettarsi da un Dio d’amore?
Sì, sono queste, perché è questo che grida l’Amato che si sente tradito dalla donna amata.
Se Dio tacesse, se decidesse di accettare il nostro peccato come una cosa senza nessuna importanza e di lasciarci come siamo, vorrebbe dire che ci ha abbandonato in balia del male e della morte.
Vorrebbe dire che non si preoccupa più di noi.
Se Dio condanna i sacerdoti di Israele, è perché li ama e li ama tuttora e non può sopportare l’idea che distruggano se stessi e distruggano il popolo con il loro peccato.

 

Negli ultimi giorni della sua vita terrena, Gesù raccolse il grido dell’ultimo profeta biblico.
Non sfogò la sua rabbia contro scribi e farisei che si sono seduti sulla cattedra di Mosè, ma si rivolse alla folla e ai suoi discepoli per metterli in guardia dal pericolo dell’ipocrisia.

 

E come all’inizio sul monte delle beatitudini (Mt 5,1), anche in queste parole dure e violente contro chi gli si opponeva, egli indicò la via della beatitudine.
Con la sua vita prima ancora che con le parole.

 

A presunti maestri di vita che caricano pesi insopportabili sulle spalle della gente, Gesù si contrappone come l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29).
Egli offre ristoro a chi è stanco e oppresso e pone sulle spalle di chi lo segue un giogo dolce e un carico leggero (Mt 11,28-30).
A guide avide di riconoscimenti e di applausi, Gesù si contrappone come la Guida che cerca il silenzio e il nascondimento (Mt 12,15; Gv 6,15).
A padri che diventano padroni dei figli, Gesù si contrappone rivelando il volto di un Padre che si prende cura dei suoi figli (Lc 6,36).
A chi ha la pretesa di insegnare l’arte della preghiera moltiplicando le parole, egli si contrappone invitando il discepolo a non sprecare parole, come se Dio non sapesse di che cosa abbiamo bisogno (Mt 6,7).
A chi si pone in alto ritenendosi superiore, Gesù si contrappone indicando la fede grande dei piccoli ai quali il Padre rivela i misteri del Regno (Mt 11,25-27) e, pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso assumendo una condizione di servo (Fil 2,6-8).

 

Gesù tenne quell’ultimo doloroso discorso per i suoi discepoli più che per accusare chi lo accusava. Poi si allontanò definitivamente dal tempio (Mt 24,1) per incamminarsi con la croce sulle spalle lungo la via del Calvario.
Dove rivelò il volto di Dio.
Gesù si lasciò spogliare delle sue vesti, invece di allungarne le frange (Mt 27,28).
Il seggio su cui fu fatto salire fu una croce di legno (Mt 27,35).
Il suo posto d’onore fu in mezzo a due delinquenti (Mt 27,38).
I saluti della folla erano sputi e parole cariche di sarcasmo (Mt 27,30-31.39-44).

 

Eppure, in questo paradossale scenario di morte e fallimento, nella voce del Figlio di Dio che non aveva più voce, il centurione che stava sotto la croce (Mt 27,54) udì con chiarezza le parole di un profeta minore vissuto cinque secoli prima e di cui (probabilmente) non aveva mai sentito parlare.

 

Morendo Gesù gridò a gran voce: Vi ho amati e non smetterò mai di amarvi (Mal 1,2).

 


Se perseveri e chiedi che sia fatta la volontà di Dio; se ti rendi conto - e lo accetti interiormente - di quanto sei debole e di quanto potente e oltremodo buono sia Colui che ti ama, imbocchi allora la strada giusta. Una nuova vita comincia a sorgere in te. Un’altra Potenza ti innalza ad un livello sacro. Le infermità e le ferite si convertono in forza e sensibilità
(Basilio di Iviron)