LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO HA VALORE
17 dicembre 2023, III AVVENTO B
(Is 61,1-2.10-11; Lc 1,46-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28)

 

Venne un uomo inviato da Dio: il suo nome era Giovanni (Gv 1,6)

 

Aristotele sostiene che la testimonianza di un uomo ha valore non in ragione della verità che si produce davanti al tribunale, ma per l’autorità morale di colui che testimonia.

 

Nel Quarto Evangelo Giovanni è presentato come il testimone per eccellenza.
Non per il suo martirio, ma per essere fin dall’inizio l’inviato di Dio.
Nessuno degli altri personaggi che attraversano le pagine dell’evangelo, per quanto importanti siano, viene presentato come tale.
A parte Gesù (Gv 5,24), ovviamente

 

Per quanto diverse, la vita di Gesù e quella di Giovanni Battista sono strettamente intrecciate, come compresero le loro rispettive madri quando s’incontrarono: Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo (Lc 1,41).
Un legame, quello tra il Battista e Colui che viene dopo, ma gli è avanti, perché era prima di lui (Gv 1,15), segnato da una gioia profonda.

 

Giovanni Battista è noto per l’austerità della vita che conduceva nel deserto dove si cibava di locuste e miele selvatico e vestiva peli di cammello con una cintura di pelle attorno ai fianchi (Mc 1,6), e per la severità delle sue parole che condannavano senza appello soldati e gente comune, uomini molto religiosi e donne dai facili costumi (Lc 3,7-14).

 

Ma il quarto evangelo ci mostra Giovanni Battista da un’altra prospettiva.
La sua autorità morale non consiste nella coerenza della sua testimonianza, ma nell’umiltà con cui si presenta.

 

Una delegazione di sacerdoti e leviti giunti da Gerusalemme lo interrogò per sapere se fosse lui Messia atteso da secoli o, se non il Messia, l’Elia che doveva tornare sulla terra per annunciarne l’imminente venuta (Ml 3,23) o, se non Elia, almeno uno dei profeti. Giovanni Battista rispose con un triplice no.
Non sono, non sono, non sono!

 

In quella triplice negazione, c’è la sua professione di fede nell’unico che può affermare di sé: IO SONO! (Gv 8,24.28-29; 8,58; 18,5-6).

 

E quando per l’insistenza della delegazione fu costretto a rivelare la sua identità, si nascose dietro una parola del principe dei profeti, Isaia.
Io – disse – sono voce di uno che grida nel deserto (Is 40,3).

 

Questa è l’autorità morale del Battista.
È un personaggio luminoso perché si mette in ombra per far risplendere la luce vera che veniva nel modo (Gv 1,9-10).
È credibile perché è solo la voce che permette alla Parola di farsi carne e porre la sua dimora in mezzo a noi (Gv 1,14).
È grande perché sa farsi da parte: Lui deve crescere; io, invece diminuire.

 

Queste sono le sue ultime parole nel quarto evangelo (Gv 3,29-30).
Giovanni s’inchina davanti a Colui che è la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6).
Gesù non una strada tra le tante, ma la Strada.
Non è una delle verità, ma la Verità.
Non uno dei tanti maestri di vita, ma è la Vita.

 

Giovanni Battista è il primo personaggio che entra in scena nel Quarto Evangelo ed è il primo a uscirne.
Quando vide arrivare Gesù l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo, lo indicò e poi si fece da parte (Gv 1,29.36).
Non trattenne due dei suoi discepoli quando gli manifestarono il desiderio di seguire Gesù, e li lasciò andare.

 

Tre anni dopo Gesù ritornò nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava. Molti andarono da lui e dicevano: Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero. E in quel luogo molti credettero in lui (Gv 10,40-42).

 

Giovanni è un testimone credibile e fedele perché indica Gesù e poi si nasconde.
Come i santi che si nascondono o nel deserto o dietro la cortina di qualche fittizia stoltezza e pazzia. E si acquietano e con la loro umiltà fanno circolare il sangue della grazia nel corpo della comunità ecclesiale (Basilio di Iviron).

 

Quando il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, l’imperatore romano Cesare Augusto, il Governatore della Siria, Quirinio (Lc 2,1-2), il re di Gerusalemme, Erode (Mt 2,1-3) non si accorsero di nulla.
Erano troppo pieni di sé per riconoscere in un bambino la Gloria di Dio.
Erano troppo in alto per accorgersi di Colui che è sceso da cielo.
Erano troppo affamati di gloria e onori per riconoscere la regalità in un crocefisso (Gv 18,37).

 

Furono i piccoli e gli umili, ai quali Dio rivela il Misteri del Regno (Mt 11,25), che accolsero Gesù e credettero nel suo Nome (Gv 1,12).

 

Uomini come Giovanni Battista che indicò Gesù e si fece da parte.
E come Giuseppe (Mt 1,20), i pastori di Betlemme (Lc 2,15-16) e i Magi venuti dall’oriente (Mt 2,11-12) che obbedivano alla voce degli angeli più che a quella del buon senso.

 

E donne come Elisabetta e Maria di Nazareth che hanno creduto nel paradossale adempimento di ciò che il Signore ha detto (Lc 1,45).

 

E con loro una moltitudine immensa che nessuno può contare di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9), uomini e donne che sostengono il mondo, anche se il mondo non li conosce e, se li conosce, li rifiuta.
Uomini e donne che dicono, come abba Porfirio: Io non ho niente, solo Cristo possiede tutto.
O, ancor più semplicemente, come Giovanni Battista: Non sono, non sono, non sono!

 


(Le anime dove Dio ha preso dimora) non hanno niente di eccezionale, niente di particolare. Il fatto è che a queste anime Dio toglie tutto fuorché l’innocenza, in modo che non abbiano altro che Lui.
(Jean-Pierre de Caussade, L’abbandono alla divina provvidenza)