GLI EVANGELI, LUCA IN PARTICOLARE
25 dicembre 2023, NATALE DEL SIGNORE
- Messa della notte: Is 9,1-6; SI 96/95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
- Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Sl 97/96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
- Messa de giorno: Is 52,7-10; Sl 98/97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito… (Lc 2,6-7)
Gli evangeli, Luca in particolare, sono molto sobri nel parlare del concepimento verginale di Maria. Ma il desiderio di dimostrare scientificamente, se così si può dire, questo caso unico nella storia della ginecologia si fece sentire molto presto.
A questo proposito, per quanto storicamente inattendibile, è spiritualmente istruttiva la leggenda riportata dal Protovangelo di Giacomo.
Quando Maria diede alla luce il bambino Gesù nella grotta di Betlemme (Giuseppe era uscito, pudicamente, con la scusa di andare in paese a comprare qualcosa da mangiare) c’era con lei una levatrice. La donna fu talmente presa dallo stupore per questa nascita miracolosa che non riuscì a trattenersi dall’andare subito a raccontarlo a qualcuno.
Uscì dalla grotta e, là fuori, incontrò Salomè. Le disse: Salomè! Salomè! Devo raccontarti una meraviglia mai vista: È accaduto ciò che la natura non permette! Una vergine ha partorito! Salomè disse: Quanto è vero il Signore mio Dio, se non introduco il mio dito e non esamino il suo stato, non crederò mai che una vergine abbia partorito.
Arrivata alla grotta, Salomè si avvicinò a Maria ma la mano che doveva investigare si trovò immediatamente disfatta sotto l’azione di un fuoco.
Questa mano rinsecchita fu poi risanata quando l’incredula prese il Bambino tra le sue braccia (Protovangelo di Giacomo, 19).
La storia (che può farci sorridere) ci mette in guardia dalla pericolosa tentazione di mettere le mani sul Mistero di Dio.
Non è un caso che il quarto evangelo si chiuda (almeno nella sua prima edizione) con la storia (vera, questa volta) di un uomo che ha ceduto alla stessa tentazione di Salomè.
La sera del primo giorno dopo il sabato, dopo essere risorto, Gesù entrò nella stanza al piano superiore dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei.
C’erano tutti, a parte Giuda, ovviamente.
E Tommaso, detto Didimo, il Gemello.
Abbiamo visto il Signore! – gli dissero quando tornò.
Per tutta risposta, invece di gioire con loro, disse: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo!
Otto giorni i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.
Gesù entrò per la seconda volta in quella stanza dalle porte chiuse e, dopo avere dato il saluto, disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito… (Gv 20,19-29).
Gesù è tornato in quella stanza per Tommaso, e per noi che pretendiamo di com-prendere il Mistero, di prenderlo come nostra proprietà.
Ma la fede non è certezza, è apertura verso l’incomprensibile fra domande e ricerche, a volte grida, lacrime e ribellione, ma anche in un’incessante preghiera di fiducia e perseveranza, nel coraggio di non accontentarsi di risposte e spiegazioni superficiali e troppo a buon mercato (Tomáš Halìk).
Il Signore non incenerì la mano di Tommaso, ma gli disse di mettere il dito dentro le sue ferite. Non sappiamo se Tommaso l’abbia fatto, ma sappiamo che, subito dopo, disse: Mio Signore e mio Dio!
Questa perfetta professione di fede non gli meritò l’ultima beatitudine di Gesù che, invece, fu riservata a uomini e donne che avevano creduto senza avere visto, senza avere toccato.
E a chi (come noi) guardando il Bambino nato da una vergine e il Figlio di Dio sulla croce avrebbe continuato a dire, come Tommaso: Mio Signore e mio Dio.
I pastori che giunsero a Betlemme, trent’anni prima, si trovarono davanti a una scena familiare.
Nella grotta c’erano una giovane madre, un padre e un bambino che dormiva sereno nella mangiatoia.
L’evento era stato annunciato da una schiera di angeli, ma ciò che trovarono fu un bambino come tanti altri.
Eppure, nessuno dei pastori pretese una prova certa che quel bambino fosse il Salvatore.
S’inchinarono davanti a Cristo Signore, lasciarono in dono qualcosa da mangiare, e poi se ne tornarono all’accampamento pieni di gioia, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto (Lc 2,8-20).
A differenza dei pastori di Betlemme, i Magi erano uomini colti e avevano attraversato valli e deserti per giungere fino a Betlemme seguendo la luce fredda di una stella.
Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.
Pur essendo uomini di scienza, invece di allungare le mani per com-prendere il Mistero, le aprirono per offrire in dono oro, incenso e mirra (Mt 2,1-11).
Trent’anni dopo, nel giardino dov’era stato sepolto Gesù, una donna piangeva perché avevano portato via il suo Signore e non sapeva dove l’avessero portato.
Riconobbe colui che stava cercando, quando Gesù la chiamo per nome: Maria!
Anche Maria di Magdala fu tentata di stringerlo forte per non perderlo mai più.
Ma Il Signore le disse: Non mi trattenere! (Gv 20,11-18).
Chi crede non mostra il suo amore per il Signore trattenendolo, ma lasciandolo andare.
Maria per qualche anno tenne il bambino Gesù tra le braccia e possiamo solo immaginare quanta gioia abbia sperimentato in quei momenti.
Ma già a dodici anni Gesù le fece capire che non dovevano pre-occuparsi per lui, perché lui doveva occuparsi delle cose del Padre suo.
Ma essi non com-presero ciò che aveva detto loro (Lc 2,49-50).
Con il passare degli anni, Maria comprese sempre meno il Mistero di quel Figlio.
Ma in quel Figlio, che è Figlio dell’Altissimo, credette sempre di più.
Noi come Salomè vorremmo prove di ciò che non può essere provato.
Come Tommaso vorremmo toccare ciò che non può essere toccato.
E come Maria di Magdala vorremmo trattenere ciò che non può essere trattenuto.
Ma, presentandoci il Verbo di Dio che si è fatto carne nel suo grembo verginale, Maria ci insegna l’umiltà di inchinarci davanti al Mistero, e la sapienza di custodire, come lei, tutte queste cose nel nostro cuore (Lc 2,51).
L’esistenza di Dio non potrà mai essere provata dal pensiero umano. Tutte le prove dimostrano soltanto la nostra sete di lui. All’assetato occorre forse la prova della sua sete?
Al regno verso il quale è diretta la fede ci si può accostare, ma non vi si può entrare; vi si può aspirare, ma non lo si può comprendere; si può sentire ma non esaminare.
Poiché avere fede significa dimorare con la ragione al di fuori ma con lo spirito entro il mistero. Lo spirito si arrende davanti al mistero dello spirituale, non per rassegnazione ma per amore.
(Abraham J. Heschel)
Buon Natale e buon anno!
don Giancarlo