LA MAGGIOR PARTE DEI MAESTRI
4 febbraio 2024, V PER ANNUM B
(Gb 7,1-4.6-7; Sl 147/146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-38)

 

Andiamocene altrove… (Mc 1,38)

 

La maggior parte dei maestri considera Giobbe uno dei pochi uomini biblici veramente timorati di Dio.
Per altri, invece, egli non è che un bestemmiatore.
Vi fu persino chi giunse a chiedere durante un sermone: Fatelo tacere! Mettetegli terra in bocca (Baba Batra 16a).

 

Nessuno si accostò a Giobbe prendendolo per mano per sollevarlo dal suo letto di cenere e dolore (Gb 2,7), come fece Gesù con la suocera di Pietro.
La moglie lo insultò per la sua integrità e gli voltò le spalle (Gb 2,9).
I suoi tre amici, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita, e Zofar il Naamatita, venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui, si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Appena lo videro si misero a piangere, si stracciarono le vesti e si cosparsero il capo di cenere.
I tre amici sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti senza toccarlo, senza parlargli, ma a nessuno di loro, con tutta la loro scienza, venne in mente di sollevarlo, prendendolo per mano (Gb 2,11-13).

 

Gesù si avvicinò alla suocera di Pietro e la sollevò prendendola per mano.
Operò il suo primo miracolo su una persona malata fisicamente con il contatto, non con la parola. Ma quel gesto intimo e silenzioso fu Parola che risana, l’evangelo del regno di Dio che si è fatto vicino (Mc 1,15), come aveva annunciato all’inizio della vita pubblica.

 

Gesù non spiegò ai discepoli e a chi lo seguiva il significato di quel primo annuncio, lo dimostrò con la vita. E quella stessa sera, dopo il tramonto del sole, quando gli portarono tutti i malati e gli indemoniati e tutta la città era riunita davanti alla porta della casa di Pietro, Gesù si lasciò avvicinare.

 

Ma i miracoli che testimoniano che il regno di Dio s’è fatto vicino sono un segnale che indicano un altrove, ed è a questo altrove che Gesù vuole educare chi decide di seguirlo.

 

Giobbe viveva anestetizzato in un mondo di benessere ma, quando questo mondo crollò, si ritrovò solo in un letto di cenere e rifiuti, scaricato dalla moglie e con l’irritante compagnia di tre amici che avevano la presunzione di avere capito tutto.
Fu la sofferenza, non la teologia degli amici, che lo portò verso questo altrove, costringendolo a guardare dentro e oltre il dolore e a interrogarsi sul mistero della vita e della morte, del bene e del male, di Dio e del diavolo.
Che senso ha vivere e morire quando quasi tutti gli anni della nostra vita sono – come dice il salmo – fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo (Sl 90,10).

 

Il merito – se così si può dire – dei tre amici di Giobbe e del quarto (giovane, presuntuoso e arrogante) che si aggiunse in seguito (Gb 32,2) fu che, senza volerlo, lo aiutarono a comprendere che le loro idee su Dio e le frasi fatte sulla provvidenza divina non portavano da nessuna parte.
Se Giobbe voleva sapere qualcosa di tutto quello che gli stava accadendo doveva costringere Dio a parlargli e per farlo doveva dimenticare il catechismo e la buona educazione e sfogare davanti a Dio tutta la sua rabbia.
Senza censure.

 

Gesù non ha piantato la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14) per risolvere tutti i problemi, ma per condividerli con noi, per farsi vicino a chi ha i cuori spezzati (Sl 34,19).
Quella sera, davanti alla porta della casa di Pietro, Gesù ne guarì molti, ma non tutti.
I miracoli sono eventi carichi di ambiguità e rischiano di essere fraintesi.
Come accadde ai discepoli che di quella straordinaria giornata compresero poco o nulla.

 

Il giorno dopo Gesù si era alzato presto, quando era ancora buio e si era ritirato in un luogo deserto per pregare.
Non vedendolo, i discepoli si misero subito sulle sue tracce per riportarlo indietro nel luogo del successo, tra la folla che lo cercava e lo osannava.
Andiamocene altrove – fu la risposta di Gesù.
E se ne andò per tutta la Galilea predicando nelle sinagoghe e scacciando i demoni.
Non si parla più di guarire ammalati nel corpo, perché la vera lotta è tra il Regno che si è fatto vicino e Il regno del principe di questo mondo che vuole allontanare gli uomini da Dio rendendoli ciechi.
Di questa cecità si occupò Gesù con il suo ultimo miracolo, prima di entrare in Gerusalemme, quando restituì la vista a Bartimeo che ebbe fede in una Parola che aveva il potere di restituire la luce al cuore prima ancora che agli occhi (Mc 10,46-52).

 

La parola di Giobbe è il grido di un profeta che rivendica la sua alleanza con Dio senza temere di offenderlo.
E, anche se Dio non risponde alle sue domande e non scioglie i suoi dubbi, Giobbe vince, alla fine, perché costringe Dio a parlargli (André Neher).
Alla fine del suo lungo cammino, steso in un letto di cenere e dolore, Giobbe arriva in questo altrove. E là, nel più impuro dei luoghi, non trova il dio da catechismo dei suoi quattro amici, un dio per sentito dire, ma il Dio che parla con lui.
Ora – dice – i miei occhi di polvere e cenere, ti vedono (Gb 42,5-6).

 

Come Bartimeo.
E come chi, nel più impuro dei luoghi, il Golgota, non vide un Dio che non cancella il male e il dolore dalla storia umana, ma lo condivide.

 

Anche del centurione che stava sotto la croce si dice che fosse cieco e che la sua cecità sia stata guarita dal sangue e dall’acqua che uscirono dal fianco di Gesù (Gv 19,34).

 

Il vangelo di Marco, con la sobrietà che lo contraddistingue, si limita a riferire che il centurione che stava sotto la croce, alzando gli occhi verso Gesù e, vedendolo morire, vedendo come moriva, vide oltre, vide l’altrove e credette (Mc 15,39; Gv 20,8).

 


Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora, né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo.
(Primo Levi, La ricerca delle radici)