IL TERZO GIORNO
3 marzo 2024, III QUARESIMA B
(Es 20,1-17; Sl 19/18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25)

 

Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2,19)

 

Fin dall’inizio Mosè comprese che per sentire la Voce di Dio era necessario allontanarsi dalle piste percorse abitualmente da pastori e carovane e inoltrarsi in territori inesplorati.
Una pecora del gregge di Itrò, suo suocero, si era smarrita sulle pendici dell’Oreb.
Cercando quella pecora (che forse non trovò) trovò il Dio che non conosceva ma che lo stava cercando.
In quel suolo santo il Signore gli parlò da un roveto che bruciava senza consumarsi rivelandogli il destino che lo attendeva e il suo Nome: Io sono colui che sono (Es 3,1-14).
Dopo l’incontro con il Dio dei suoi padri, Mosè abbandonò il gregge del suocero e divenne pastore di un popolo schiavo in Egitto.

 

Tre mesi dopo aver lasciato l’Egitto, i figli di Israele giunsero al deserto dl Sinai, dove si accamparono, davanti al monte (Es 19,1-2).
Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una densa nube avvolgeva il monte e un suono fortissimo di corno.
Mosè parlava con Dio e Dio gli rispondeva con una voce.
Il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì (Es 19,16-20) e lassù gli consegnò Dieci Parole, le colonne che sostengono il mondo.
Parole incise nella pietra e da incidere nel cuore.
Con la Prima Parola il Signore ripeté a Mosè il suo Nome, precisando che Io Sono non è filosofia ma storia.
Una storia di libertà: Io Sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile.
Quella Prima Parola al presente sostiene le altre Nove, declinate al futuro, perché parlano di un cammino da compiere, di una storia che sta davanti.
Per Israele (e per noi) la libertà è un cammino che non ha fine.

 

Giovanni racconta l’episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal cortile del tempio all’inizio del suo evangelo e non alla fine come gli altri tre (Mt 21,12-13; Mc 11,15-19; Lc 19,45-46).
Giovanni, l’aquila, vede la storia sempre da un’altra prospettiva, più alta e più profonda.

 

Dopo aver riempito di vino buono sei giare vuote (Gv 2,1-11), il Signore svuotò il tempio riempito da mercanti.
Gesù non è venuto a distruggere la tradizione dei padri ma a riempirla perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10), perché la fede nel suo Nome torni a essere un cammino di libertà.

 

Nella lingua ebraica il verbo incidere e la parola libertà hanno la stessa radice.
Le Dieci Parole incise nella pietra dal dito di Dio sono per la libertà.
E la libertà non è un’idea, ma un’esperienza, una storia, appunto.
Come quella del popolo che Dio ha fatto uscire da una condizione di schiavitù, da un luogo dove era garantita la sopravvivenza, ma abolita la responsabilità.
Ma il cammino verso la libertà richiede tempi lunghi e ha un prezzo da pagare.
I figli di Israele vagarono quarant’anni nel deserto, il tempo di un’intera generazione, prima di raggiungere il confine della Terra Promessa, prima che le Dieci Parole incise nella pietra si incidessero nel cuore e diventassero la storia di un popolo libero.
I confini delle nazioni sono precisi e ben delimitati, ma la libertà è un viaggio s-confinato, un cammino che non ha fine, un infinito viaggiare, direbbe Claudio Magris.
I verbi al futuro delle Dieci Parole sono i segni di una promessa che si realizzerà e che rimane sempre da realizzare.

 

Venite e vedrete, aveva detto Gesù ai primi due discepoli che avevano cercato dove dimorasse (Gv 1,37-39).
Gesù non offrì una sistemazione definitiva, ma un cammino da compiere dietro a lui, imparando a decifrare i segni che egli compiva e a credere in Lui e alle sue Parole.
Cosa che i Giudei non riuscivano a fare, perché i loro occhi non vedevano oltre le pietre del tempio, i recinti degli animali, i banchi dei cambiamonete.
C’era un’altra Parola dietro le parole dette dal Messia, come un’altra Legge nascosta tra le parole incise nella pietra.
Il Tempio che i Giudei avrebbero distrutto e che Lui avrebbe ricostruito in tre giorni non era fatto di pietre e metalli preziosi.
Era una Parola che era dal Principio (Gv 1,1).

 

Parola scritta nell’aria con una frusta di cordicelle o tracciate con il dito nella sabbia (Gv 8,1-11). Parole invisibili che il vento porta via, se non si incidono nel cuore.
Dopo che Gesù fu risuscitato, i discepoli ricordarono ciò che aveva detto e credettero.
Ma, prima di quel giorno, la Sua Parola era troppo dura (Gv 6,60) sia per i Giudei che non comprendevano che per i discepoli che credevano di aver compreso.

 

Solo chi appoggia il capo sul petto di Gesù (Gv 13,25) riesce a vedere le cose dalla Sua prospettiva, riesce a decifrare Parole che non sono di questo mondo, anche se lo sostengono e a leggere con chiarezza la parola libertà incisa nella carne di Gesù dalle frustate dei soldati e dalla lancia che gli aprì il cuore (Gv 19,1.34).

 

Alcuni, pochi in verità, riuscirono a vedere tutto questo già, quel pomeriggio vigilia della festa di Pasqua, stando presso la croce di Gesù.
Erano la madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Magdala
(Gv 19,25).

 

E il discepolo amato.

 

Che, tre giorni dopo, in quella grossa pietra ribaltata dal sepolcro vide incisa la parola libertà. Il sepolcro era aperto e vuoto e Gesù era volato via (Gv 20,1).

 

In tre giorni Egli aveva fatto risorgere il tempio che era stato distrutto, come aveva promesso nel cortile del Tempio tre anni prima.

 

Accanto a un Simon Pietro ancora perplesso, il Discepolo Amato vide e credette (Gv 20,8).

 


Nel suo grande amore, Dio non ha voluto costringere la nostra libertà, anche se avrebbe potuto farlo, ma ci ha lasciati venire a lui con il solo amore del nostro cuore.
(Isacco di Ninive, Discorsi ascetici 81)