MARIA E GIUSEPPE PRESENTARONO
2 febbraio 2025, Festa della presentazione al tempio
(Ml 3,1-4; Sl 24/23,7-10; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40)      

 

I miei occhi hanno visto la tua salvezza (Lc 2,30)

 

Maria e Giuseppe presentarono al tempio Colui che regge il mondo con una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore (Lv 12,8).
Legge che riguarda i poveri, chi non poteva permettersi il lusso di un agnello.
La povera coppia di sposi non fu accolta dal sommo sacerdote con i suoi leviti, ma da un povero vecchio giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele.
Nei primi versetti del racconto la parola Legge ritorna tre volte.
E tre volte la parola Spirito.
La ridondanza nelle pagine della Scrittura può anche annoiare, ma in genere è una spia che segnala l’importanza di ciò che si sta leggendo.

 

Il racconto della presentazione al Tempio riguarda la Legge del Signore, che Gesù non è venuto ad abolire, ma a portare a compimento (Mt 5,17), e lo Spirito che Dio ha messo nella Legge.

 

Quando i Magi giunsero a Gerusalemme, interrogarono Erode per sapere dove fosse Colui che è nato, il re dei Giudei.
Il re convocò i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo che risposero con precisione e in fretta alla domanda del sovrano.
Essi conoscevano la Scrittura e la Legge del Signore, ma non sentivano il soffio dello Spirito in quelle parole (Gv 3,8).
Come se per loro quelle parole fossero lettera morta.
E, a differenza dei Magi, non mossero un passo verso Betlemme.
E forse, anche se l’avessero fatto, sarebbero tornati indietro per dire Erode di non preoccuparsi. A Betlemme c’era solo un bambino che giaceva nella mangiatoia di una stalla con due poveri genitori che non potevano permettersi un alloggio (Mt 2,1-12).

 

Come i Magi, il vecchio Simeone riconobbe immediatamente il Figlio di Dio in quel Bambino, in tutto simile agli altri bambini che ogni giorno venivano presentati al Tempio.
Lo riconobbe perché Simeone era un uomo giusto e pio che conosceva la Scrittura, obbediva alla Legge e sentiva in quelle parole il soffio dello Spirito che le animava.
La sua certezza non veniva dallo studio, né dalla sua intelligenza, ma dall’obbedienza alla Legge (ob-audire, udire) che è anzitutto un atto di ascolto.
Era un uomo fedele alla Scrittura e al suo nome.
Simeone, shamà, ha ascoltato (Gen 29,33).

 

Oltre a essere giusto e pio, il vecchio Simeone era un uomo perseverante.
Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima avere veduto il Cristo del Signore, ed egli con questa certezza ogni santo giorno che Dio mandava sulla terra saliva al Tempio.

 

La sua non era resilienza, né l’ostinata fissazione di un vecchio.
In Simeone c’era l’ardente desiderio di vedere il Messia.
La sua perseveranza è la fiducia dell’umile che s’inchina davanti a Dio, del piccolo che non conta nulla agli occhi del mondo, ma di cui Dio si serve per continuare l’opera di salvezza che ha preparato per tutti i popoli. 
Le parole della preghiera che rivolse a Dio tenendo il Bambino tra le braccia, non sono sue, ma in quelle parole c’è tutta la sua vita e la storia del suo popolo.
Cinque secoli prima, Isaia, il principe dei profeti, aveva annunciato quel giorno.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà (Is 40,5).
Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra (Is 49,6). I popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria (Is 62,2).
I verbi non sono più al futuro perché oggi si è compiuta questa Scrittura (Lc 4,21).
In quel Bambino che stringe tra le braccia il vecchio Simeone riconosce il compimento di tutta la Legge.
E nell’insignificanza del segno Simeone vede anche la forza di quel Bambino che dividerà in due la storia umana e il cuore degli uomini. Gesù è un segno di contraddizione che porterà la caduta o la risurrezione di molti in Israele.

 

Nel resoconto ordinato del suo evangelo (Lc 1,3), Luca racconta storie di uomini e donne che muoiono o risorgono, che accolgono o rifiutano che si perdono o che si lasciano ritrovare. Con la spada della sua parola Gesù non separerà i buoni dai cattivi, i santi dai peccatori, non innescherà battaglie sociali contro i ricchi per difendere i poveri, ma porterà la vita e la luce (Gv 1,4) nell’intimo del cuore umano (Eb 4,12).

 

Anche Maria e Pietro conobbero questa dolorosa e salutare lacerazione.
Lei che all’inizio aveva pronunciato il suo Eccomi (Lc 1,36), in quello stesso luogo, nel Tempio, dodici anni dopo non comprese le parole del Figlio (Lc 2,50).
Simon Pietro, il primo degli apostoli, che all’inizio aveva lasciato tutto per seguire Gesù (Lc 5,11), alla fine nel cortile della casa del sommo sacerdote, si sentì trafiggere il cuore dallo sguardo di Gesù dopo averlo rinnegato tre volte (Lc 22,54-62).
Ma la spada che Gesù è venuto a portare incide per guarire non per uccidere.

 

Fino alla fine della sua vita terrena Gesù rimase un segno di contraddizione.

 

Trent’anni dopo, Gesù fu crocefisso sul Golgota tra due malfattori.
Uno chiedeva il miracolo e, non ottenendo nulla, lo insultava.
L’altro, invece, chiese solo un ricordo e lo accolse.
I soldati deridevano la sua pretesa di essere il re dei Giudei (Lc 23,36-37).
Un altro soldato, invece, il centurione che stava sotto la croce, diede gloria a Dio e riconobbe in Gesù un uomo giusto (Lc 23,47).
Il Golgota è un crocevia, e la croce rimane uno scandalo, un segno di contraddizione che divide in due la storia e il cuore umano.

 

Quando Gesù fu crocefisso il vecchio Simeone e la profetessa Anna se n’erano già andati in pace dopo aver visto la Salvezza che Dio aveva preparato per tutti i popoli.
Eppure, con la libertà concessa dalla scrittura negli spazi bianchi tra i segni neri delle parole, si può immaginare che ci fossero anche loro lassù, sul Golgota.
Per stringere tra le braccia non più il Bambino, ma il Figlio di Dio che morendo donava la salvezza a tutti i popoli della terra. 

 


Lode alla pazienza dei poveri, di coloro che ancora credono, ma ancora non vedono, di coloro che ancora sperano ma ancora non possiedono, di coloro che con nostalgia sospirano ma ancora felicemente non regnano, di coloro che ancora hanno fame e sete ma non sono ancora saziati. La pazienza di questi poveri non va perduta in eterno.
(Agostino, De patientia)